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AFORISMA DEL GIORNO
26 febbraio, 2010
17 febbraio, 2010
Lupus e fumo: se insieme c'è un maggior rischio di ictus nelle donne
Scienziati olandesi hanno scoperto che le giovani donne che presentano positività al lupus anticoagulant (LA) sono esposte a un rischio significativamente maggiore di essere colpite da ictus e infarto rispetto ai soggetti che non possiedono questo anticorpo. Il rischio è addirittura ancora più alto nei soggetti che fumano e che assumono contraccettivi orali. I risultati dello studio sono stati pubblicati nella rivista Lancet Neurology.
Il lupus anticoagulant è un sottotipo di anticorpo associato alla sindrome da anticorpi antifosfolipidi (APS), una patologia autoimmune che colpisce principalmente le giovani donne e che causa emorragie e complicazioni in gravidanza. Secondo gli scienziati, la sindrome è un fattore di rischio acquisito per la trombosi arteriosa, che rappresenta oggi una delle più frequenti cause di mortalità nei paesi industrializzati. "Sebbene l'incidenza della trombosi arteriosa negli individui con meno di 50 anni sia bassa, la malattia colpisce un numero elevato di giovani", scrivono gli autori.
Nelle giovani donne, la diagnosi della sindrome viene solitamente formulata con l'effettuazione dell'analisi degli anticorpi antifosfolipidi in seguito a un episodio trombotico, come un infarto o un ictus. Con questo studio gli scienziati intendevano individuare la portata del rischio di infarto o ictus nelle donne affette dalla sindrome.
Il team, composto da scienziati del Centro di medicina dell'Università di Utrecht e da scienziati del Centro di medicina dell'Università di Leida (Paesi Bassi) hanno utilizzato i dati di un imponente studio di controllo sulla popolazione chiamato RATIO (Risk of Arterial Thrombosis in relation to Oral Contraceptives). Lo studio ha coinvolto più di 1.000 donne di età inferiore ai 50 anni, tra cui soggetti di controllo sani (628) e donne colpite da infarto o ictus (378) tra il 1990 e il 2001. Tutte le donne coinvolte sono state chiamate a rispondere a un questionario volto a valutare i fattori di rischio cardiovascolari (tra cui il fumo e l'assunzione di contraccettivi orali) e a mettere a disposizione dei campioni di sangue per l'analisi degli anticorpi antifosfolipidi.
Sulla base dei risultati ottenuti gli scienziati hanno stimato che l'incidenza di lupus anticoagulant nella popolazione è di 7 casi su 1000 (gli studi svolti in precedenza avevano indicato un'incidenza più alta). Il lupus anticoagulant è stato individuato in 30 pazienti già colpite da ictus, in 6 pazienti colpite da infarto e in 4 donne del gruppo di controllo. Il team ha concluso, confrontando i risultati con quelli del gruppo di controllo, che il rischio di ictus è di 43 volte superiore nei soggetti positivi al lupus anticoagulant e che negli stessi soggetti il rischio di essere colpiti da infarto è di 5 volte superiore. Le donne che presentavano positività al lupus anticoagulant che assumevano contraccettivi orali, come anche le donne fumatrici nella stessa condizione, avevano un rischio di essere colpite da ictus o infarto ancora maggiore, raggiungendo in alcuni casi un rischio fino a 200 volte superiore.
Scrivono gli scienziati: "I nostri risultati suggeriscono che il lupus anticoagulant costituisce un fattore di rischio di grande rilevanza per gli episodi di trombosi arteriosa nelle giovani donne e che la presenza di altri fattori di rischio cardiovascolari incrementa ulteriormente questo rischio". Secondo gli scienziati sarebbe necessario garantire il test per il lupus anticoagulant a tutte le giovani donne colpite da infarto ischemico.
FONTE: Molecularlab.it
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Il lupus anticoagulant è un sottotipo di anticorpo associato alla sindrome da anticorpi antifosfolipidi (APS), una patologia autoimmune che colpisce principalmente le giovani donne e che causa emorragie e complicazioni in gravidanza. Secondo gli scienziati, la sindrome è un fattore di rischio acquisito per la trombosi arteriosa, che rappresenta oggi una delle più frequenti cause di mortalità nei paesi industrializzati. "Sebbene l'incidenza della trombosi arteriosa negli individui con meno di 50 anni sia bassa, la malattia colpisce un numero elevato di giovani", scrivono gli autori.
Nelle giovani donne, la diagnosi della sindrome viene solitamente formulata con l'effettuazione dell'analisi degli anticorpi antifosfolipidi in seguito a un episodio trombotico, come un infarto o un ictus. Con questo studio gli scienziati intendevano individuare la portata del rischio di infarto o ictus nelle donne affette dalla sindrome.
Il team, composto da scienziati del Centro di medicina dell'Università di Utrecht e da scienziati del Centro di medicina dell'Università di Leida (Paesi Bassi) hanno utilizzato i dati di un imponente studio di controllo sulla popolazione chiamato RATIO (Risk of Arterial Thrombosis in relation to Oral Contraceptives). Lo studio ha coinvolto più di 1.000 donne di età inferiore ai 50 anni, tra cui soggetti di controllo sani (628) e donne colpite da infarto o ictus (378) tra il 1990 e il 2001. Tutte le donne coinvolte sono state chiamate a rispondere a un questionario volto a valutare i fattori di rischio cardiovascolari (tra cui il fumo e l'assunzione di contraccettivi orali) e a mettere a disposizione dei campioni di sangue per l'analisi degli anticorpi antifosfolipidi.
Sulla base dei risultati ottenuti gli scienziati hanno stimato che l'incidenza di lupus anticoagulant nella popolazione è di 7 casi su 1000 (gli studi svolti in precedenza avevano indicato un'incidenza più alta). Il lupus anticoagulant è stato individuato in 30 pazienti già colpite da ictus, in 6 pazienti colpite da infarto e in 4 donne del gruppo di controllo. Il team ha concluso, confrontando i risultati con quelli del gruppo di controllo, che il rischio di ictus è di 43 volte superiore nei soggetti positivi al lupus anticoagulant e che negli stessi soggetti il rischio di essere colpiti da infarto è di 5 volte superiore. Le donne che presentavano positività al lupus anticoagulant che assumevano contraccettivi orali, come anche le donne fumatrici nella stessa condizione, avevano un rischio di essere colpite da ictus o infarto ancora maggiore, raggiungendo in alcuni casi un rischio fino a 200 volte superiore.
Scrivono gli scienziati: "I nostri risultati suggeriscono che il lupus anticoagulant costituisce un fattore di rischio di grande rilevanza per gli episodi di trombosi arteriosa nelle giovani donne e che la presenza di altri fattori di rischio cardiovascolari incrementa ulteriormente questo rischio". Secondo gli scienziati sarebbe necessario garantire il test per il lupus anticoagulant a tutte le giovani donne colpite da infarto ischemico.
FONTE: Molecularlab.it
12 febbraio, 2010
Briciole di Medicina (12° Puntata) – Diagnosi di laboratorio delle malattie emorragiche
La diagnosi di laboratorio delle malattie emorragiche si fondano su di una serie di esami dedicati all’esplorazione delle vie che compongono la cascata coagulativa. Di tutte le molecole che prendono parte al sistema è possibile valutare la concentrazione e l’attività biologica. E’ poi possibile mediante esame emocromocitometrico effettuare una conta della concentrazione piastrinica, infine è possibile eseguire dei test funzionali in vivo in cui si valuta il tempo impiegato dal plasmas del soggetto a coagulare in determinate situazioni o con particolari reagenti.
1- ESAME EMOCROMOCITOMETRICO CON CONTA PIASTRINICA: v.n. da 150000 a 450000 su millilitro
2- DOSAGGIO FIBRINOGENEMIA: v.n. da 150 a 400 mg/dL , per la determinazione della fibrinogenemia si utilizza una tecnica coagulometrica in cui si valuta il quantitativo di fibrinogeno presente in modo inversamente proporzionale alla velocità di coagulazione (espressa in secondi) di un campione di plasma citratato e ricalcificato e trattato con un reagente quale la trombina bovina. Il valore tende ad aumentare in neoplasie, infiammazioni, gravidanze. Tende a diminuire in epatopatie, coagulopatie da consumo, iperfibrinolisi, trombolisi.
3- TEST DEL TEMPO DI SANGUINAMENTO: può essere calcolato mediante metodo standard (tempo di Ivy) o mediante metodo non standard (tempo di emostasi con laccio emostatico). Solitamente si utilizza un template disposable che produce sulla superficie volare de braccio un taglio di circa 1 centimetro, si asporta il primo sangue ricco di tromboplastina tissutale e si valuta il tempo che trascorre fino all’avvenuto arresto dell’emorragia. V.n. inferiori a 100 secondi.
4- TEST DEL TEMPO DI PROTROMBINA o DI QUICK: viene utilizzato per valutare il corretto funzionamento della fibrinogenesi secondo la via estrinseca. Il reagente è costituito dalla stessa tromboplastina che in vivo innesca tale meccanismo, questo reagente viene prodotto da lisati cellulari animali o con tecniche ricombinanti. Il test si esegue su campioni di plasma (ottenuti dopo centrifugazione da sangue trattato con un anticoagulante quale il citrato sodico). Il tempo normale di formazione della Fibrina è di v.n. da 12 a 16 secondi. Un’altra modalità di espressione per il test del PT è rappresentata dalla formulazione percentuale, presupponendo c he per i soggetti normali il valore medio (14 secondi) corrisponda al 100% di formazione della fibrina l’intervallo di normalità sarà riformulato in v.n. da 70% fino a 120%. Infine una terza modalità di espressione del test PT viene indicata con la sigla INR cioè “International Normalized Ratio” e si rende necessaria in quanti le tromboplastine usate come reagenti possono avere una differente sensibilità per cui si ricalcola il valore ottenuto dividendolo per un calore di tempo di protrombina “standard” (tcp) e elevando tale valore per un esponente che è determinato dal valore di sensibilità della tromboplastina utilizzato in laboratorio.
Il tempo di protrombina tende a ridursi in soggetti predisposti a trombosi e tende ad aumentare in soggetti predisposti a emorragie, tuttavia soltanto ulteriori test sono indicativi in tal senso.
5- TEST DEL TEMPO DI TROMBINA: è un test che si esegue valutando la coagulazione in relazione all’aggiunta diretta di trombina, cioè saltando il processo di attivazione degli enzimi della cascata coagulativa posti a valle rispetto alla protrombina. Il test valuta se esistono delle alterazioni della concentrazione, della propria possibilità di attivazione o dell’attività fisiologica del fibrinogeno. V.n. da 18 a 22 secondi. Tende ad aumentare nelle disfibrinogenemie o nelle ipofibrinogenemie o nelle sindromi ludiche anticoagulans.
6- TEST DELLA TROMBOPLASTINA PARZIALE ATTIVATA: viene utilizzato per valutare il corretto funzionamento della fibrinogenesi secondo la via intrinseca. Il reagente è costituito dal caolino, cioè da un composto in grado di fornire le cariche negative necessarie per simulare il contatto del plasma con il connettivo sottoendoteliare al fine di attivare i fattori della via intrinseca. I v.n. sono da 25 a 40 secondi.
7- VALUTAZIONI COMPARATIVE FRA I TEST DI PROTROMBINA E DI TROMBOPLASTINA PARZIALE ATTIVATA: un rapido raffronto fra i due test che permettono di valutare le due vie di attivazione della coagulazione consente al laboratorista di effettuare alcune ipotesi in merito a possibili carenze di fattori da parte del soggetto in esame.
1- se PT normale e aPPT allungato, si ipotizza carenze della via intrinseca (e cioè di F8, F9, F11, F12 o precallicreina).
2- se PT allungato e aPTT normale, si ipotizza carenze di fattori della via estrinseca (e cioè F8 o carenza di vitamina K ridotta).
3- se PT allungato e aPPT allungato, si ipotizza carenze a carico dei fattori della via finale comune (e cioè F5, F10, protrombina o soggetti con malattie epatiche o in terapia anticoagulante)
8- DETERMINAZIONE QUANTITATIVA E QUALITATIVA DEI DEFICIT FATTORIALI: sono indagini più profonde che permettono di valutare attentamente la corretta attività dei fattori che costituiscono la cascata coagulativa o che vi partecipano indirettamente. I laboratori sono in grado di determinare sia la proteina come attività biologica tramite metodi coagulometrici e cromogenici, sia la quantità di proteina presente mediante metodi immunometrici. La determinazione specifica di una singola carenza fattoriale si avvale di un metodo coagulometrico che utilizza come reagenti specifici i reagenti “plasma free” cioè campioni di plasma standard ma privati di un fattore coagulativo alla volta. Tale determinazione si basa sul principio che il plasma del soggetto in esame ha la capacità di accorciare il tempo di coagulazione di un plasma “free”. Di seguito un breve schema riassuntivo:
PT APTT TT Ipotesi di deficit
Normale Allungato Normale F12, F11, F9, F8
Allungato Normale Normale F7
Allungato Allungato Normale Fibrinogeno, protrombina, F5, F10
Allungato Allungato Allungato Fibrinogeno, FDP, antitrombinici
9- DETERMINAZIONE DELLA VITAMINA K RIDOTTA: fondamentale per il processo coagulativo è il mantenimento di valori di vitamina K a livelli adeguati e in particolar modo la disponibilità di vit. K ridotta. Le epatopatie croniche si possono associare ad un difetto secondario nella sintesi dei fattori procoagulanti plasmatici e dei fattori inibitori plasmatici nonché dei fattori fibrinolitici. Le concentrazioni di vitamina K influenzano i fattori della coagulazione vitamina K-dipendenti (cioè fattori che presentano un GLA-domain e che sono caratterizzati dall’interazione con la vitamina K-ridotta in presenza di carbossilasi la quale permette loro di trasformarsi nel composto attivo) quali il fattore 8, 9, 10, 12, la proteina C e la proteina S. La vitamina K per la sua natura idrofobica se assunta con l’alimentazione come fillochinone o sintetizzata dalla flora intestinale come menachinoni per essere assorbiti richiedono la presenza di Sali biliari pertanto i deficit dovuti a carenze alimentari, a malassorbimento, a ostruzioni delle vie biliari, a stasi biliare intraepatica, ad alterazioni della flora intestinale o all’assunzione di sostanze ad attività antivitamina K, possono associarsi ad un’aumentata incidenza di episodi emorragici.
10- ESPLORAZIONE DELLA FIBRINOLISI: viene effettuata principalmente dosando i prodotti di degradazione del fibrinogeno (o Fattori FDP). La plasmina formatasi in circolo per attivazione del processo di fibrinolisi esercita la sua azione litica sia sulla fibrina che sul fibrinogeno, determinando la sintesi dei FDP che sono frammenti della porzione carbossiterminale delle catene alfa e della porzione ammino-terminale delle catene beta. Si distinguono in base alle dimensioni in frammento X, frammento D e frammento Y. La degradazione della fibrina stabilizzata avviene più lentamente e porta alla formazione del frammento dimerico D-D. I FDP possono essere dosati con metodi immunometrici (cioè utilizzandoli come antigeni di anticorpi monoclonali) e normalmente nel plasma non sono rilevabili mentre aumentano in modo considerevole nel corso di trombopatie e nel corso di CID. E’ possibile effettuare anche il dosaggio diretto del plasminogeno, dell’attivatore tissutale TPA, dell’inibitore plasmatico PAI-1, solo in corso di gravidanza dal terzo mese in poi si può dosare anche il PAI-2, e infine si può dosare l’inibitore competitivo alfa-2-antiplasmina
ESAMI DIAGNOSTICI PER TROMBOFILIE
Per trombofilia si definisce il rischio di sviluppare fenomeni tromboembolici venosi di tipo acquisito o di tipo ereditario. L’incidenza delle malattie tromboembolitiche è notevolmente aumentata negli ultimi anni. L’ipotesi più accreditata definisce che i casi di trombosi venosa siano dei disordini multigenici e quindi a causa della complessa interazione genica si renda estremamente improbabile una stima vera del rischio individuale di sviluppare trombosi. Il laboratorio non è efficace per una diagnosi precoce di questa patologia perché non permette di ottenere informazioni certe su fattori che possono predire una ipercoagulabilità del soggetto. Il sospetto di tromboembolia primitiva si ottiene dall’esame obiettivo, dall’anamnesi, dalla diagnostica per imagini e dai dati ematologici. Solitamente le indagini si applicano per la valutazione di soggetti a rischio di trombosi venose o arteriose profonde o ricorrenti e in soggetti con predisposizione familiare a tali eventi. I test di base sono rivolti a valutare l’efficacia del sistema fibrinolitico e dei più importanti fattori di inibizione della coagulazione. Quindi si ha la determinazione:
1- dell’antitrombina 3
2- della proteina C
3- della proteina S
4- del fibrinogeno
5- del plasminogeno
6- del cofattore eparinico 2
7- del tPA (attivatore tissutale del plasminogeno)
8- del PAI (inibitore dell’attivazione del plasminogeno)
La terapia consiste nell’adozione di una terapia anticoagulante orale che permetta di mantenere il valore del tempo di protrombina in un arco di normalità per almeno sei mesi. Se è presente un fattore di rischio congenito la terapia deve essere assunta tutta la vita. Nell’1% dei casi si può avere un esito fatale per embolia polmonare.
ESAMI DIAGNOSTICI PER EMOFILIE (COAGULOPATIE CONGENITE)
Le sindromi emofiliche, la malattia di von Willebrand e diverse forme di piastrinopatia sono le malattie emorragiche a più alta prevalenza (circa 100 milioni di casi in un anno). Sono patologie ereditarie legate al cromosoma X (emofilia) o legate a un gene autosomico dominante (von Willebrand). L’importanza dei fattori 8 e 9 e il loro coinvolgimento nell’emofilia fu confermato dagli esperimenti condotti nel 1947 da Brinkhous e Quick, i quali osservarono come il plasma di alcuni pazienti emofilici mancasse di una globulina e che potesse causare coagulazione nei campioni di plasma di altri pazienti emofilici.
L’emofilia A è dovuto a deficit del fattore 8, si trasmette con ereditarietà recessiva legata al sesso, ha una prevalenza di circa 1 su 50000 ed è quattro volte più frequente rispetto all’emofilia B. Il gene è localizzato nella parte terminale del braccio lungo del cromosoma X, di conseguenza il maschio affetto da emofilia ha un deficit grave e può ricevere l’alterazione solo dalla madre emofilia asintomatica, mentre una donna può presentare una espressione di gravità variabile in base al processo di Lyonizzazione del cromosoma X. In base all’attività plasmatica del fattore 8 si distingue una forma grave (<1%), moderata (<5%), lieve (dal 30 al 50%). L’emofilia A grave si manifesta entro il primo anno di vita con gravi emorragie spontanee intramuscolari,nei tessuti molli e negli organi parenchimale. L’anamnesi familiare o quella personale getta le basi del sospetto di emofilia A, che viene confermata dall’allungamento del tempo APTT, mentre il tempo di protrombina e il tempo di sanguinamento sono normali. Il successivo dosaggio del fattore 8 specifico il grado e il tipo di deficit. La biologia molecolare utilizzando el sonde molecolari permette la caratterizzazione del difetto genetico anche nelle eterozigoti. Le tecniche della PCR e della sequenzazione diretta del DNA permettono l’identificazione della singola mutazione a carico del gene F8. Alcune malattie di tipo autoimmune (LES, artrite reumatoide, ect) e alcune gammapatie monoclonali possono indurre la produzione di inibitori del F8 con un deficit simile all’emofilia A. Nella donna in gravidanza è possibile effettuare una diagnosi precoce nel feto mediante analisi dei villi coriali tra la nona e la dodicesima settimana di gestazione.
L’emofilia B è dovuta a un deficit congenito a carico del fattore 9 o PTCD. Le modalità di trasmissione del deficit sono identiche a quelle dell’emofilia A e clinicamente si riconoscono una forma grave, una forma moderata e una lieve. La prognosi dell’emofilia B è uguale all’emofilia A. L’emofilia B si presenta con un allungamento del tempo di coagulazione dell’APTT, mentre il tempo di protrombina risulta nel range di riferimenti. La diagnosi differenziale con l’emofilia A deriva dal dosaggio dei F8 e F9, mentre il dosaggio immunologico permette di riconoscere la variante emofilia B+ dalla emofilia B-. Il riconoscimento della variante Leiden richiede anche la misura dei tempi di protrombina con varie tromboplastine.
La malattia di Von Willebrand o pseudoemofilia ereditaria, è un disordine coagulativo dovuto a deficit qualitativi o quantitativi della glicoproteina multimerica plasmatica a trasmissione ereditaria di tipo autosomico dominante con penetranza variabile anche all’interno di una stessa famiglia. La sintomatologia clinica è data da manifestazioni emorragiche da difetto dell’emostasi primaria, che possono essere spontanee (epistassi, metrorragie), traumatiche o da intervento chirurgico. Un deficit dovuto al VWF causa un allungamento del tempo di sanguinamento che esplora l’interazione tra le piastrine e l‘endotelio e viene misurato sperimentalmente con il test del cofattore ristocetinico che utilizza un antibiotico quale la ristocetina in grado di attivare il dominio molecolare del VWF responsabile del legame con la glicoproteina Ib. Con i soli dati di laboratorio è problematico distinguere fra forme clinicamente poco rilevanti e forme più gravi.
ESAMI DIAGNOSTICI PER FIBRINOGENEMIE
I deficit qualitativi o quantitativi a carico del fibrinogeno possono comportare una totale riduzione della concentrazione del fibrinogeno plasmatico come nell’afibrinogenemia congenita, un deficit che interessa sia il fibrinogeno plasmatico che quello piastrinico. Questa alterazione si trasmette come carattere autosomico recessivo. L’ipofibrinogenemia congenita è una rara malattia che si trasmette come carattere autosomico dominante. Le disfibrinogenemia congenite sono un gruppo di alterazioni funzionali dovute a mutazioni del gene codificante per il fibrinogeno che impediscono la sintesi o la secrezione extracellulare del fibrinogeno.
La diagnosi di laboratorio si fonda su di un allungamento del PT e del PTT mentre il dosaggio del fibrinogeno con i metodi utilizzati di routine può essere molto difficoltoso.
ESAMI DIAGNOSTICI PER CID
La CID (Coagulazione Intravasale Disseminata) è una sindrome secondaria a altre situazioni patologiche che hanno in comune un’incontrollata produzione di trombina, ad esempio un danno meccanico che comporti l’esposizione del fattore tissutale (ustioni, traumi cerebrali, rotture placentari), oppure la comparsa in circolo di fattore tissutale o di altre sostanze in grado di attivare la coagulazione (neoplasie, leucosi acute). La CID può essere determinata anche da un danno endoteliari da sepsi, da endotossine prodotte da batteri gram negativi o da esotossine prodotte da batteri gram positivi. Infine anche uno shock circolatorio può essere l’evento primario.
In dipendenza del grado del processo infiammatorio che si associa a questi eventi scatenanti la CID si ha la liberazione di proteasi endocellulari, di IL-1, IL-6 e TNF-alfa ce interferiscono sia nella coagulazione sia aumentando la produzione del fattore tissutale.
La diagnosi di CID viene posta qualora si evidenzi un aumento degli FDP. Il metodo immunometrico tradizionale è incapace di distinguere i prodotti del fibrinogeno dai prodotti della fibrina, cosi è stato sostituito dal test D-dimero. L’aumento dei D-dimeri presuppone la formazione di monomeri di fibrina e la loro stabilizzazione ad opera del F13a. Nel caso si superi il valore decisionale di 2000 mg/ml si ha un alto valore predittivo positivo per CID. Altri rilievi importanti sono la conta piastrinica inferiore a 100000, l’allungamento significativo del tempo di PT e di APTT, la riduzione della fibrinogenemia.
ESAMI DIAGNOSTICI PER LUPUS ANTICOAGULANS
Con il termine “Lupus Anticoagulans” si intende una possibile condizione di interferenza nei test coagulativi che si rinviene in un paziente che presenti un aPPT allungato e che non sia sottoposto a terapia con eparina o con anticoagulanti orali e che non abbia carenza di un fattore della coagulazione specifico di natura congenita o da consumo. In questo caso si sospetta che vi sia un fattore specifico che interferisce con il test o con la capacità coagulante del soggetto, come ad esempio anticorpi antifattori, oppure vi sia la presenza di un fattore aspecifico, come ad esempio anticorpi antifosfolipidi tipici in una malattia autoimmune come il lupus.
La diagnosi prevede una serie di tappe in successione.
1- Dapprima si attua la valutazione di un TT-Test (cioè di un test di tempo di trombina). Se questi è normale si procede a una indagine con la determinazione di un APTT su di una miscela formata da plasma di soggetto normale e plasma di paziente in rapporto 4:1. Se l’aggiunta di plasma normale normalizza l’APTT, ci si deve orientare per una carenza di qualche fattore della coagulazione. Mediante l’utilizzo degli opportuni test “Plasma Free” si giungerà facilmente a diagnosi. Se l’APTT rimane allungato anche dopo miscelazione bisogna sospettare la presenza in circolo di inibitori del tipo aspecifico. Una causa comune di tal condizione è rappresentata dalla presenza di anticorpi antifosfolipidi.
2- Sono stati creati ulteriori test che confermano se vi sia realmente un’attività inibente della coagulazione e che questa sia o meno di tipo Lupus. Tali test sono suddivisi in due categorie in base alla concentrazione bassa o elevata in fosfolipidi dei reagenti utilizzati nei test di base dell’emostasi.
3- Ad esempio in un paziente in cui si sospetti la presenza di inibitori aspecifici è possibile eseguire il Test di coagulazione con veleno di vipera Russell utilizzando un reagente a bassa concentrazione di fosfolipidi: se si ottengono tempi di coagulazione più prolungati rispetto a quelli ottenuti con un normale reagente APTT si conferma la presenza di inibitori aspecifici del tipo LAC mentre in caso contrario ci si orienta per la presenza di inibitori specifici quali anticorpi anti-fattori della coagulazione.
4- Utilizzando un reagente ad elevata concentrazione di fosfolipidi sarà possibile diagnosticare un LAC in presenza di un accorciamento del tempo di coagulazione rispetto al testo APTT di screening. Un test tipico in tal senso è il Test di neutralizzazione piastrinica secondo Triplett.
FATTORE 1 => FIBRINOGENO – E’ una glicoproteina di 340000 dalton prodotta principalmente nel fegato, ha una emivita di 90 ore, una concentrazione plasm. da 150 a 400 mg/dL è ricca di acido sialico, è composta da tre coppie di catene polipeptidiche unite tra loro da ponti disolfuro. La trombina esercita su di essa un’azione proteolitica che causa il distacco dal fibrinogeno dei fibrinopeptidi (FPA e FPB) generando dei monomeri di fibrina che polimerizzano diventando protofibrille solubili, le quali per azione del fattore 13 diventano fibrille insolubili che solidificano il tappo piastrinico. Partecipa insieme al fattore di Von Willebrand alle fasi di adesione e aggregazione piastrinica formando dei ponti di fibrinogeno calcioione dipendenti fra le membrane delle piastrine aggregate.
FATTORE 2 => PROTROMBINA – è una glicoproteina a catena singola prodotta dal fegato, p.m. di 70000 Dalton con una concentr. Plasm. di 100 mg/ml, viene convertita nella sua forma attiva dall’azione del fattore 10, in presenza del fattore 5 e di fosfolipidi. Il processo di attivazione porta alla sintesi di un composto intermedio detto meizotrombina dotato di scarsa attività procoagulante, il quale in assenza di fattore 5 e di fosfolipidi si trasforma in pretrombina. La trombina attiva quasi tutti i fattori della coagulazione ed è inattivata dall’antitrombina, dal cofattore parifico 2 e dal fibrinopeptide A che viene rilasciato dal fibrinogeno per azione della stessa trombina (autofeedback).
FATTORE 3 => TROMBOPLASTINA TISSUTALE – è una glicoproteina presente nella membrana plasmatica delle cellule di tutti i tessuti, p.m. di circa 46000 Dalton, ne sono ricchi il cervello, il polmone e la placenta, agisce come recettore per il F8 e in presenza di ioni calcio attiva i fattori F9 e F10. Ha una struttura mista fosfolipidica e proteica, quest’ultima è chiamata apoproteina 3. Viene inibito dal complesso formato dal TFPI (tissue factor pathway inibitor)-F10 e dal fattore LACI (lipoprotein associated coagulation inhibitor).
FATTORE 4 => IONI CALCIO
FATTORE 5 => PROACCELERINA o FATTORE LABILE – è sintetizzato principalmente nel fegato e ha una semivita breve, per 1/5 è contenuto anche nelle piastrine, viene attivato dalla trombina e dal fattore10, agisce da cofattore attivante sul fattore 10 favorendo a sua volta l’attivazione della trombina. E’ anche un cofattore nella degradazione dei fattori F8 e F6 (autofeedback), viene inattivato principalmente dalla proteina C. La sua carenza è trasmessa come carattere autosomico recessivo.
FATTORE 6 => Forma attivata della Proaccelerina
FATTORE 7 => PROCONVERTINA – è prodotta dal fegato ha un p.m. di 48000 con una semivita di circa 6 ore, può essere attivato da vari fattori quali il F9, il F10, il F12, il F2. La carenza di fattore F7 è trasmesso come carattere autosomico recessivo. Si attiva per azione del fattore tromboplastico tissutale in presenza di ioni calcio e favorisce l’attivazione del fattore 9 e del fattore 10.
FATTORE 8 => FATTORE ANTIEMOFILICO A – E’ una globulina di 300000 dalton, prodotta dal fegato e dal sistema reticolo-endoteliare, semivita di 12 ore. Conc. Plasm. da 0,05 a 0,15 mg/ml. Questa glicoproteina è circolante nel sangue legata in modo non covalente con il fattore von Willebrand. Viene attivata dalla trombina e svolge un’azione non enzimatica sul F9 in presenza di fosfolipidi e ioni calcio. Il gene è situato sul braccio lungo del cromosoma X e mutazioni sono trasmesse con una modalità di tipo X-linked recessiva. Possiede un dominio GLA-domain e la sua produzione epatica dipende dalla disponibilità di vitamina K ridotta.
FATTORE 9 => FATTORE ANTIEMOFILICO B – E’ una glicoproteina di 54000 Dalton prodotta dal fegato, semivita di circa 25 ore, conc. Plasm. di circa 5 mg/ml, è attivata dal F11 o dal complesso F7-F3, con il rilascio di un peptide di attivazione. Il F9 attivato attiva il F10 in presenza di F8, di ioni calcio e di fosfolipidi di membrana. Le alterazioni a carico del gene situato sul braccio lungo del cromosoma X portano alla emofilia B, alterazione che si trasmette in modo ereditario con una modalità di tipo X-linked recessivo caratterizzato dal fatto che i figli maschi sono colpiti in forma grave mentre le femmine eterozigote hanno un grado variabile di manifestazione del fenotipo. Possiede un dominio GLA-domain e la sua produzione epatica dipende dalla disponibilità di vitamina K ridotta.
FATTORE 10 => FATTORE DI STUART PROWER – E’ una glicoproteina prodotta dal fegato con un p.m. di 59000 Dalton, semivita di 60 ore, conc. Plasm. di 12 mg/ml, viene attivato dal F9 nella via intrinseca, oppure dal F8-F3 nella via estrinseca. Il prodotto di attivazione è definito F10aAlfa che in presenza di fosfolipidi rilascia un secondo peptide formando il fattore F10aBeta. Sia il fattore Alfa che il fattore Beta convertono la protrombina in trombina se in presenza di F5, di ioni calcio e di fosfolipidi. La carenza è trasmessa come carattere autosomico recessivo. Possiede un dominio GLA-domain e la sua produzione epatica dipende dalla disponibilità di vitamina K ridotta.
FATTORE 11 => FATTORE ANTIEMOFILICO C o FATTORE DI ROSENTHAL – è una glicoproteina prodotta dal fegato, p.m. di 160000 Dalton, semivita di 60 ore circa. Si attiva per contatto con superfici estranee aventi carica elettrica negativa (es. Caolino) o per contatto con il connettivo sottoendoteliare.
FATTORE 12 => FATTORE HAGEMAN – Proteina prodotta dal fegato con un p.m. di 80000 Dalton, una emivita di 60 ore circa, si attiva per contatto con superfici estranee aventi carica elettrica negativa (es. Caolino) o per contatto con il connettivo sottoendoteliare. Ha anche una debole attività anticoagulativa e fibrinolitica. Possiede un dominio GLA-domain e la sua produzione epatica dipende dalla disponibilità di vitamina K ridotta.
FATTORE 13 => FIBRINOLIGASI – è una proteina tetramerica plasmatica dal p.m. di 320000 Dalton, concentrazione da 10 a 20 mg/ml, è composta da due subunità A e B, di cui le subunità A esercitano un’azione catalitica stabilizzando la fibrina. L’azione proteolitica della trombina determina la formazione del fattore attivato che opera la polimerizzazione della fibrina in protofibrille solubili. E’ prodotta dal fegato ed è presente in parte anche nei megacariociti.
FATT. VON WILLEBRAND => proteina a elevato peso molecolare, circola nel plasma e viene sintetizzato nelle cellule endoteliari e nei megacariociti come monomero dal quale successivamente derivano i multimeri che si localizzano nella matrice sottoendoteliare. I multimeri a più elevato grado di polimerizzazione esprimono la maggiore efficacia emostatica. Ne sono ricche le piastrine e le cellule dell’endotelio. Agisce nell’emostasi primaria aumenta il grado di legame delle piastrine promuovendo il fenomeno dell’adesione e dell’aggregazione piastrinica. Legando il F8 circolante lo protegge dall’azione degradante delle proteasi lo localizza in prossimità delle membrane piastriniche. La carenza di VWF viene trasmessa come carattere autosomico dominante.
FATT. PK => PRECALLICREINA -
FATT. HMWK => CHININOGENO AD ALTO PESO MOLECOLARE o FATTORE WILLIAMS -
PROTEINA C o PROTEINA APC => Viene prodotta dal fegato in forma già di per se attiva, in presenza di trombina ioni calcio e trombomodulina (una proteina di membrana delle cellule endoteliari) si inattiva perdendo la capacità di legare e attivare il F5. La forma inattiva corrisponde al Fattore APC che agisce come anticoagulante inattivando il F5 e il F8, stimolando la fibrinolisi e proteggendo l’attivatore tissutale del plasminogeno. Possiede un dominio GLA-domain e la sua produzione epatica dipende dalla disponibilità di vitamina K ridotta.
PROTEINA S => è una glicoproteina prodotta da fegato, endotelio e megacariociti. Agisce da cofattore della proteina APC aiutando nella degradazione di F5 e F8 attivati. Possiede un dominio GLA-domain e la sua produzione epatica dipende dalla disponibilità di vitamina K ridotta.
EPARINA => viene sintetizzata dalle mastocellule e viene escreta nel plasma come aminoglicani a diverso grado di solforazione che si associano a un nucleo proteico formando un complesso proteoglicano. La degradazione dell’eparina circolante è di tipo enzimatico e la sua completa rimozione è attuata dalle cellule del sistema reticolo endoteliare. Ha una fondamentale azione anticoagulante che viene svolta tramite cofattori eparinici quali il cofattore 1 e il cofattore 2.
ANTITROMBINA 3 => E’ il cofattore 1 dell’eparina. E’ una alfa-2-globulina appartenente alla famiglia proteica delle serpine (serin protease inhibitor), sintetizza dal fegato e dotata di un effetto inibitore sui fattori della coagulazione appartenenti al gruppo delle serine-proteasi. Esprime la sua inibizione fomando complessi irreversibili con la molecola da inibire, principalmente trombina, F10, F9, F11, F8. La presenza in circolo di eparina accelera l’attività inibente dell’AT3 nei confronti della trombina. L’azione preferenziale per la trombina avviene tramite la formazione di un complesso che inibisce l’azione proteolitica ma successivamente si distacca e si rende disponibile per altre molecole.
COFATTORE EPARINICO 2 => è il secondo cofattore, esercita un’azione antitrombina specifica sotto l’azione catalitica dell’eparina non legata al fattore AT3.
VALORI NORMALI DEI TEST PER LA VALUTAZIONE DELLA COAGULAZIONE
TEMPO DI COAGULAZIONE (Metodo di Lee-White) => da 4 a 8 minuti
TEMPO DI COAGULAZIONE ATTIVATO (celite) => < 100 secondi
TEMPO DI PROTROMBINA => da 11 a 13 secondi ± 2 secondi rispetto al controllo normale
TEMPO DI TROMBOPLASTINA PARZIALE => da 60 a 85 secondi
TEMPO DI TROMBOPLASTINA PARZIALE ATTIVATA => da 30 a 40 secondi ± 5 secondi
TEMPO DI TROMBINA => 10-15 secondi o un tempo non superiore a 1,3 volte lo standard
FIBRINOGENEMIA => 150-450 mg/dL
TEMPO DI LISI DEL COAGULO (urea 5M) => coagulo intatto dopo 1 ora, lisi dopo 24 ore
TEMPO DI LISI DELLE EUGLOBULINE => lisi in 2-6 ore
DOSAGGIO FDP SU PARTICELLE DI LATTICE => < 20 microgrammi/millilitro
DOSAGGIO FDP SU GLOBULI ROSSI TANNATI => < 5 microgrammi/millilitro
TEST FUNZIONALE PER ANTITROMBINA 3 => > 50 % di un pool di sieri normali
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1- ESAME EMOCROMOCITOMETRICO CON CONTA PIASTRINICA: v.n. da 150000 a 450000 su millilitro
2- DOSAGGIO FIBRINOGENEMIA: v.n. da 150 a 400 mg/dL , per la determinazione della fibrinogenemia si utilizza una tecnica coagulometrica in cui si valuta il quantitativo di fibrinogeno presente in modo inversamente proporzionale alla velocità di coagulazione (espressa in secondi) di un campione di plasma citratato e ricalcificato e trattato con un reagente quale la trombina bovina. Il valore tende ad aumentare in neoplasie, infiammazioni, gravidanze. Tende a diminuire in epatopatie, coagulopatie da consumo, iperfibrinolisi, trombolisi.
3- TEST DEL TEMPO DI SANGUINAMENTO: può essere calcolato mediante metodo standard (tempo di Ivy) o mediante metodo non standard (tempo di emostasi con laccio emostatico). Solitamente si utilizza un template disposable che produce sulla superficie volare de braccio un taglio di circa 1 centimetro, si asporta il primo sangue ricco di tromboplastina tissutale e si valuta il tempo che trascorre fino all’avvenuto arresto dell’emorragia. V.n. inferiori a 100 secondi.
4- TEST DEL TEMPO DI PROTROMBINA o DI QUICK: viene utilizzato per valutare il corretto funzionamento della fibrinogenesi secondo la via estrinseca. Il reagente è costituito dalla stessa tromboplastina che in vivo innesca tale meccanismo, questo reagente viene prodotto da lisati cellulari animali o con tecniche ricombinanti. Il test si esegue su campioni di plasma (ottenuti dopo centrifugazione da sangue trattato con un anticoagulante quale il citrato sodico). Il tempo normale di formazione della Fibrina è di v.n. da 12 a 16 secondi. Un’altra modalità di espressione per il test del PT è rappresentata dalla formulazione percentuale, presupponendo c he per i soggetti normali il valore medio (14 secondi) corrisponda al 100% di formazione della fibrina l’intervallo di normalità sarà riformulato in v.n. da 70% fino a 120%. Infine una terza modalità di espressione del test PT viene indicata con la sigla INR cioè “International Normalized Ratio” e si rende necessaria in quanti le tromboplastine usate come reagenti possono avere una differente sensibilità per cui si ricalcola il valore ottenuto dividendolo per un calore di tempo di protrombina “standard” (tcp) e elevando tale valore per un esponente che è determinato dal valore di sensibilità della tromboplastina utilizzato in laboratorio.
Il tempo di protrombina tende a ridursi in soggetti predisposti a trombosi e tende ad aumentare in soggetti predisposti a emorragie, tuttavia soltanto ulteriori test sono indicativi in tal senso.
5- TEST DEL TEMPO DI TROMBINA: è un test che si esegue valutando la coagulazione in relazione all’aggiunta diretta di trombina, cioè saltando il processo di attivazione degli enzimi della cascata coagulativa posti a valle rispetto alla protrombina. Il test valuta se esistono delle alterazioni della concentrazione, della propria possibilità di attivazione o dell’attività fisiologica del fibrinogeno. V.n. da 18 a 22 secondi. Tende ad aumentare nelle disfibrinogenemie o nelle ipofibrinogenemie o nelle sindromi ludiche anticoagulans.
6- TEST DELLA TROMBOPLASTINA PARZIALE ATTIVATA: viene utilizzato per valutare il corretto funzionamento della fibrinogenesi secondo la via intrinseca. Il reagente è costituito dal caolino, cioè da un composto in grado di fornire le cariche negative necessarie per simulare il contatto del plasma con il connettivo sottoendoteliare al fine di attivare i fattori della via intrinseca. I v.n. sono da 25 a 40 secondi.
7- VALUTAZIONI COMPARATIVE FRA I TEST DI PROTROMBINA E DI TROMBOPLASTINA PARZIALE ATTIVATA: un rapido raffronto fra i due test che permettono di valutare le due vie di attivazione della coagulazione consente al laboratorista di effettuare alcune ipotesi in merito a possibili carenze di fattori da parte del soggetto in esame.
1- se PT normale e aPPT allungato, si ipotizza carenze della via intrinseca (e cioè di F8, F9, F11, F12 o precallicreina).
2- se PT allungato e aPTT normale, si ipotizza carenze di fattori della via estrinseca (e cioè F8 o carenza di vitamina K ridotta).
3- se PT allungato e aPPT allungato, si ipotizza carenze a carico dei fattori della via finale comune (e cioè F5, F10, protrombina o soggetti con malattie epatiche o in terapia anticoagulante)
8- DETERMINAZIONE QUANTITATIVA E QUALITATIVA DEI DEFICIT FATTORIALI: sono indagini più profonde che permettono di valutare attentamente la corretta attività dei fattori che costituiscono la cascata coagulativa o che vi partecipano indirettamente. I laboratori sono in grado di determinare sia la proteina come attività biologica tramite metodi coagulometrici e cromogenici, sia la quantità di proteina presente mediante metodi immunometrici. La determinazione specifica di una singola carenza fattoriale si avvale di un metodo coagulometrico che utilizza come reagenti specifici i reagenti “plasma free” cioè campioni di plasma standard ma privati di un fattore coagulativo alla volta. Tale determinazione si basa sul principio che il plasma del soggetto in esame ha la capacità di accorciare il tempo di coagulazione di un plasma “free”. Di seguito un breve schema riassuntivo:
PT APTT TT Ipotesi di deficit
Normale Allungato Normale F12, F11, F9, F8
Allungato Normale Normale F7
Allungato Allungato Normale Fibrinogeno, protrombina, F5, F10
Allungato Allungato Allungato Fibrinogeno, FDP, antitrombinici
9- DETERMINAZIONE DELLA VITAMINA K RIDOTTA: fondamentale per il processo coagulativo è il mantenimento di valori di vitamina K a livelli adeguati e in particolar modo la disponibilità di vit. K ridotta. Le epatopatie croniche si possono associare ad un difetto secondario nella sintesi dei fattori procoagulanti plasmatici e dei fattori inibitori plasmatici nonché dei fattori fibrinolitici. Le concentrazioni di vitamina K influenzano i fattori della coagulazione vitamina K-dipendenti (cioè fattori che presentano un GLA-domain e che sono caratterizzati dall’interazione con la vitamina K-ridotta in presenza di carbossilasi la quale permette loro di trasformarsi nel composto attivo) quali il fattore 8, 9, 10, 12, la proteina C e la proteina S. La vitamina K per la sua natura idrofobica se assunta con l’alimentazione come fillochinone o sintetizzata dalla flora intestinale come menachinoni per essere assorbiti richiedono la presenza di Sali biliari pertanto i deficit dovuti a carenze alimentari, a malassorbimento, a ostruzioni delle vie biliari, a stasi biliare intraepatica, ad alterazioni della flora intestinale o all’assunzione di sostanze ad attività antivitamina K, possono associarsi ad un’aumentata incidenza di episodi emorragici.
10- ESPLORAZIONE DELLA FIBRINOLISI: viene effettuata principalmente dosando i prodotti di degradazione del fibrinogeno (o Fattori FDP). La plasmina formatasi in circolo per attivazione del processo di fibrinolisi esercita la sua azione litica sia sulla fibrina che sul fibrinogeno, determinando la sintesi dei FDP che sono frammenti della porzione carbossiterminale delle catene alfa e della porzione ammino-terminale delle catene beta. Si distinguono in base alle dimensioni in frammento X, frammento D e frammento Y. La degradazione della fibrina stabilizzata avviene più lentamente e porta alla formazione del frammento dimerico D-D. I FDP possono essere dosati con metodi immunometrici (cioè utilizzandoli come antigeni di anticorpi monoclonali) e normalmente nel plasma non sono rilevabili mentre aumentano in modo considerevole nel corso di trombopatie e nel corso di CID. E’ possibile effettuare anche il dosaggio diretto del plasminogeno, dell’attivatore tissutale TPA, dell’inibitore plasmatico PAI-1, solo in corso di gravidanza dal terzo mese in poi si può dosare anche il PAI-2, e infine si può dosare l’inibitore competitivo alfa-2-antiplasmina
ESAMI DIAGNOSTICI PER TROMBOFILIE
Per trombofilia si definisce il rischio di sviluppare fenomeni tromboembolici venosi di tipo acquisito o di tipo ereditario. L’incidenza delle malattie tromboembolitiche è notevolmente aumentata negli ultimi anni. L’ipotesi più accreditata definisce che i casi di trombosi venosa siano dei disordini multigenici e quindi a causa della complessa interazione genica si renda estremamente improbabile una stima vera del rischio individuale di sviluppare trombosi. Il laboratorio non è efficace per una diagnosi precoce di questa patologia perché non permette di ottenere informazioni certe su fattori che possono predire una ipercoagulabilità del soggetto. Il sospetto di tromboembolia primitiva si ottiene dall’esame obiettivo, dall’anamnesi, dalla diagnostica per imagini e dai dati ematologici. Solitamente le indagini si applicano per la valutazione di soggetti a rischio di trombosi venose o arteriose profonde o ricorrenti e in soggetti con predisposizione familiare a tali eventi. I test di base sono rivolti a valutare l’efficacia del sistema fibrinolitico e dei più importanti fattori di inibizione della coagulazione. Quindi si ha la determinazione:
1- dell’antitrombina 3
2- della proteina C
3- della proteina S
4- del fibrinogeno
5- del plasminogeno
6- del cofattore eparinico 2
7- del tPA (attivatore tissutale del plasminogeno)
8- del PAI (inibitore dell’attivazione del plasminogeno)
La terapia consiste nell’adozione di una terapia anticoagulante orale che permetta di mantenere il valore del tempo di protrombina in un arco di normalità per almeno sei mesi. Se è presente un fattore di rischio congenito la terapia deve essere assunta tutta la vita. Nell’1% dei casi si può avere un esito fatale per embolia polmonare.
ESAMI DIAGNOSTICI PER EMOFILIE (COAGULOPATIE CONGENITE)
Le sindromi emofiliche, la malattia di von Willebrand e diverse forme di piastrinopatia sono le malattie emorragiche a più alta prevalenza (circa 100 milioni di casi in un anno). Sono patologie ereditarie legate al cromosoma X (emofilia) o legate a un gene autosomico dominante (von Willebrand). L’importanza dei fattori 8 e 9 e il loro coinvolgimento nell’emofilia fu confermato dagli esperimenti condotti nel 1947 da Brinkhous e Quick, i quali osservarono come il plasma di alcuni pazienti emofilici mancasse di una globulina e che potesse causare coagulazione nei campioni di plasma di altri pazienti emofilici.
L’emofilia A è dovuto a deficit del fattore 8, si trasmette con ereditarietà recessiva legata al sesso, ha una prevalenza di circa 1 su 50000 ed è quattro volte più frequente rispetto all’emofilia B. Il gene è localizzato nella parte terminale del braccio lungo del cromosoma X, di conseguenza il maschio affetto da emofilia ha un deficit grave e può ricevere l’alterazione solo dalla madre emofilia asintomatica, mentre una donna può presentare una espressione di gravità variabile in base al processo di Lyonizzazione del cromosoma X. In base all’attività plasmatica del fattore 8 si distingue una forma grave (<1%), moderata (<5%), lieve (dal 30 al 50%). L’emofilia A grave si manifesta entro il primo anno di vita con gravi emorragie spontanee intramuscolari,nei tessuti molli e negli organi parenchimale. L’anamnesi familiare o quella personale getta le basi del sospetto di emofilia A, che viene confermata dall’allungamento del tempo APTT, mentre il tempo di protrombina e il tempo di sanguinamento sono normali. Il successivo dosaggio del fattore 8 specifico il grado e il tipo di deficit. La biologia molecolare utilizzando el sonde molecolari permette la caratterizzazione del difetto genetico anche nelle eterozigoti. Le tecniche della PCR e della sequenzazione diretta del DNA permettono l’identificazione della singola mutazione a carico del gene F8. Alcune malattie di tipo autoimmune (LES, artrite reumatoide, ect) e alcune gammapatie monoclonali possono indurre la produzione di inibitori del F8 con un deficit simile all’emofilia A. Nella donna in gravidanza è possibile effettuare una diagnosi precoce nel feto mediante analisi dei villi coriali tra la nona e la dodicesima settimana di gestazione.
L’emofilia B è dovuta a un deficit congenito a carico del fattore 9 o PTCD. Le modalità di trasmissione del deficit sono identiche a quelle dell’emofilia A e clinicamente si riconoscono una forma grave, una forma moderata e una lieve. La prognosi dell’emofilia B è uguale all’emofilia A. L’emofilia B si presenta con un allungamento del tempo di coagulazione dell’APTT, mentre il tempo di protrombina risulta nel range di riferimenti. La diagnosi differenziale con l’emofilia A deriva dal dosaggio dei F8 e F9, mentre il dosaggio immunologico permette di riconoscere la variante emofilia B+ dalla emofilia B-. Il riconoscimento della variante Leiden richiede anche la misura dei tempi di protrombina con varie tromboplastine.
La malattia di Von Willebrand o pseudoemofilia ereditaria, è un disordine coagulativo dovuto a deficit qualitativi o quantitativi della glicoproteina multimerica plasmatica a trasmissione ereditaria di tipo autosomico dominante con penetranza variabile anche all’interno di una stessa famiglia. La sintomatologia clinica è data da manifestazioni emorragiche da difetto dell’emostasi primaria, che possono essere spontanee (epistassi, metrorragie), traumatiche o da intervento chirurgico. Un deficit dovuto al VWF causa un allungamento del tempo di sanguinamento che esplora l’interazione tra le piastrine e l‘endotelio e viene misurato sperimentalmente con il test del cofattore ristocetinico che utilizza un antibiotico quale la ristocetina in grado di attivare il dominio molecolare del VWF responsabile del legame con la glicoproteina Ib. Con i soli dati di laboratorio è problematico distinguere fra forme clinicamente poco rilevanti e forme più gravi.
ESAMI DIAGNOSTICI PER FIBRINOGENEMIE
I deficit qualitativi o quantitativi a carico del fibrinogeno possono comportare una totale riduzione della concentrazione del fibrinogeno plasmatico come nell’afibrinogenemia congenita, un deficit che interessa sia il fibrinogeno plasmatico che quello piastrinico. Questa alterazione si trasmette come carattere autosomico recessivo. L’ipofibrinogenemia congenita è una rara malattia che si trasmette come carattere autosomico dominante. Le disfibrinogenemia congenite sono un gruppo di alterazioni funzionali dovute a mutazioni del gene codificante per il fibrinogeno che impediscono la sintesi o la secrezione extracellulare del fibrinogeno.
La diagnosi di laboratorio si fonda su di un allungamento del PT e del PTT mentre il dosaggio del fibrinogeno con i metodi utilizzati di routine può essere molto difficoltoso.
ESAMI DIAGNOSTICI PER CID
La CID (Coagulazione Intravasale Disseminata) è una sindrome secondaria a altre situazioni patologiche che hanno in comune un’incontrollata produzione di trombina, ad esempio un danno meccanico che comporti l’esposizione del fattore tissutale (ustioni, traumi cerebrali, rotture placentari), oppure la comparsa in circolo di fattore tissutale o di altre sostanze in grado di attivare la coagulazione (neoplasie, leucosi acute). La CID può essere determinata anche da un danno endoteliari da sepsi, da endotossine prodotte da batteri gram negativi o da esotossine prodotte da batteri gram positivi. Infine anche uno shock circolatorio può essere l’evento primario.
In dipendenza del grado del processo infiammatorio che si associa a questi eventi scatenanti la CID si ha la liberazione di proteasi endocellulari, di IL-1, IL-6 e TNF-alfa ce interferiscono sia nella coagulazione sia aumentando la produzione del fattore tissutale.
La diagnosi di CID viene posta qualora si evidenzi un aumento degli FDP. Il metodo immunometrico tradizionale è incapace di distinguere i prodotti del fibrinogeno dai prodotti della fibrina, cosi è stato sostituito dal test D-dimero. L’aumento dei D-dimeri presuppone la formazione di monomeri di fibrina e la loro stabilizzazione ad opera del F13a. Nel caso si superi il valore decisionale di 2000 mg/ml si ha un alto valore predittivo positivo per CID. Altri rilievi importanti sono la conta piastrinica inferiore a 100000, l’allungamento significativo del tempo di PT e di APTT, la riduzione della fibrinogenemia.
ESAMI DIAGNOSTICI PER LUPUS ANTICOAGULANS
Con il termine “Lupus Anticoagulans” si intende una possibile condizione di interferenza nei test coagulativi che si rinviene in un paziente che presenti un aPPT allungato e che non sia sottoposto a terapia con eparina o con anticoagulanti orali e che non abbia carenza di un fattore della coagulazione specifico di natura congenita o da consumo. In questo caso si sospetta che vi sia un fattore specifico che interferisce con il test o con la capacità coagulante del soggetto, come ad esempio anticorpi antifattori, oppure vi sia la presenza di un fattore aspecifico, come ad esempio anticorpi antifosfolipidi tipici in una malattia autoimmune come il lupus.
La diagnosi prevede una serie di tappe in successione.
1- Dapprima si attua la valutazione di un TT-Test (cioè di un test di tempo di trombina). Se questi è normale si procede a una indagine con la determinazione di un APTT su di una miscela formata da plasma di soggetto normale e plasma di paziente in rapporto 4:1. Se l’aggiunta di plasma normale normalizza l’APTT, ci si deve orientare per una carenza di qualche fattore della coagulazione. Mediante l’utilizzo degli opportuni test “Plasma Free” si giungerà facilmente a diagnosi. Se l’APTT rimane allungato anche dopo miscelazione bisogna sospettare la presenza in circolo di inibitori del tipo aspecifico. Una causa comune di tal condizione è rappresentata dalla presenza di anticorpi antifosfolipidi.
2- Sono stati creati ulteriori test che confermano se vi sia realmente un’attività inibente della coagulazione e che questa sia o meno di tipo Lupus. Tali test sono suddivisi in due categorie in base alla concentrazione bassa o elevata in fosfolipidi dei reagenti utilizzati nei test di base dell’emostasi.
3- Ad esempio in un paziente in cui si sospetti la presenza di inibitori aspecifici è possibile eseguire il Test di coagulazione con veleno di vipera Russell utilizzando un reagente a bassa concentrazione di fosfolipidi: se si ottengono tempi di coagulazione più prolungati rispetto a quelli ottenuti con un normale reagente APTT si conferma la presenza di inibitori aspecifici del tipo LAC mentre in caso contrario ci si orienta per la presenza di inibitori specifici quali anticorpi anti-fattori della coagulazione.
4- Utilizzando un reagente ad elevata concentrazione di fosfolipidi sarà possibile diagnosticare un LAC in presenza di un accorciamento del tempo di coagulazione rispetto al testo APTT di screening. Un test tipico in tal senso è il Test di neutralizzazione piastrinica secondo Triplett.
FATTORE 1 => FIBRINOGENO – E’ una glicoproteina di 340000 dalton prodotta principalmente nel fegato, ha una emivita di 90 ore, una concentrazione plasm. da 150 a 400 mg/dL è ricca di acido sialico, è composta da tre coppie di catene polipeptidiche unite tra loro da ponti disolfuro. La trombina esercita su di essa un’azione proteolitica che causa il distacco dal fibrinogeno dei fibrinopeptidi (FPA e FPB) generando dei monomeri di fibrina che polimerizzano diventando protofibrille solubili, le quali per azione del fattore 13 diventano fibrille insolubili che solidificano il tappo piastrinico. Partecipa insieme al fattore di Von Willebrand alle fasi di adesione e aggregazione piastrinica formando dei ponti di fibrinogeno calcioione dipendenti fra le membrane delle piastrine aggregate.
FATTORE 2 => PROTROMBINA – è una glicoproteina a catena singola prodotta dal fegato, p.m. di 70000 Dalton con una concentr. Plasm. di 100 mg/ml, viene convertita nella sua forma attiva dall’azione del fattore 10, in presenza del fattore 5 e di fosfolipidi. Il processo di attivazione porta alla sintesi di un composto intermedio detto meizotrombina dotato di scarsa attività procoagulante, il quale in assenza di fattore 5 e di fosfolipidi si trasforma in pretrombina. La trombina attiva quasi tutti i fattori della coagulazione ed è inattivata dall’antitrombina, dal cofattore parifico 2 e dal fibrinopeptide A che viene rilasciato dal fibrinogeno per azione della stessa trombina (autofeedback).
FATTORE 3 => TROMBOPLASTINA TISSUTALE – è una glicoproteina presente nella membrana plasmatica delle cellule di tutti i tessuti, p.m. di circa 46000 Dalton, ne sono ricchi il cervello, il polmone e la placenta, agisce come recettore per il F8 e in presenza di ioni calcio attiva i fattori F9 e F10. Ha una struttura mista fosfolipidica e proteica, quest’ultima è chiamata apoproteina 3. Viene inibito dal complesso formato dal TFPI (tissue factor pathway inibitor)-F10 e dal fattore LACI (lipoprotein associated coagulation inhibitor).
FATTORE 4 => IONI CALCIO
FATTORE 5 => PROACCELERINA o FATTORE LABILE – è sintetizzato principalmente nel fegato e ha una semivita breve, per 1/5 è contenuto anche nelle piastrine, viene attivato dalla trombina e dal fattore10, agisce da cofattore attivante sul fattore 10 favorendo a sua volta l’attivazione della trombina. E’ anche un cofattore nella degradazione dei fattori F8 e F6 (autofeedback), viene inattivato principalmente dalla proteina C. La sua carenza è trasmessa come carattere autosomico recessivo.
FATTORE 6 => Forma attivata della Proaccelerina
FATTORE 7 => PROCONVERTINA – è prodotta dal fegato ha un p.m. di 48000 con una semivita di circa 6 ore, può essere attivato da vari fattori quali il F9, il F10, il F12, il F2. La carenza di fattore F7 è trasmesso come carattere autosomico recessivo. Si attiva per azione del fattore tromboplastico tissutale in presenza di ioni calcio e favorisce l’attivazione del fattore 9 e del fattore 10.
FATTORE 8 => FATTORE ANTIEMOFILICO A – E’ una globulina di 300000 dalton, prodotta dal fegato e dal sistema reticolo-endoteliare, semivita di 12 ore. Conc. Plasm. da 0,05 a 0,15 mg/ml. Questa glicoproteina è circolante nel sangue legata in modo non covalente con il fattore von Willebrand. Viene attivata dalla trombina e svolge un’azione non enzimatica sul F9 in presenza di fosfolipidi e ioni calcio. Il gene è situato sul braccio lungo del cromosoma X e mutazioni sono trasmesse con una modalità di tipo X-linked recessiva. Possiede un dominio GLA-domain e la sua produzione epatica dipende dalla disponibilità di vitamina K ridotta.
FATTORE 9 => FATTORE ANTIEMOFILICO B – E’ una glicoproteina di 54000 Dalton prodotta dal fegato, semivita di circa 25 ore, conc. Plasm. di circa 5 mg/ml, è attivata dal F11 o dal complesso F7-F3, con il rilascio di un peptide di attivazione. Il F9 attivato attiva il F10 in presenza di F8, di ioni calcio e di fosfolipidi di membrana. Le alterazioni a carico del gene situato sul braccio lungo del cromosoma X portano alla emofilia B, alterazione che si trasmette in modo ereditario con una modalità di tipo X-linked recessivo caratterizzato dal fatto che i figli maschi sono colpiti in forma grave mentre le femmine eterozigote hanno un grado variabile di manifestazione del fenotipo. Possiede un dominio GLA-domain e la sua produzione epatica dipende dalla disponibilità di vitamina K ridotta.
FATTORE 10 => FATTORE DI STUART PROWER – E’ una glicoproteina prodotta dal fegato con un p.m. di 59000 Dalton, semivita di 60 ore, conc. Plasm. di 12 mg/ml, viene attivato dal F9 nella via intrinseca, oppure dal F8-F3 nella via estrinseca. Il prodotto di attivazione è definito F10aAlfa che in presenza di fosfolipidi rilascia un secondo peptide formando il fattore F10aBeta. Sia il fattore Alfa che il fattore Beta convertono la protrombina in trombina se in presenza di F5, di ioni calcio e di fosfolipidi. La carenza è trasmessa come carattere autosomico recessivo. Possiede un dominio GLA-domain e la sua produzione epatica dipende dalla disponibilità di vitamina K ridotta.
FATTORE 11 => FATTORE ANTIEMOFILICO C o FATTORE DI ROSENTHAL – è una glicoproteina prodotta dal fegato, p.m. di 160000 Dalton, semivita di 60 ore circa. Si attiva per contatto con superfici estranee aventi carica elettrica negativa (es. Caolino) o per contatto con il connettivo sottoendoteliare.
FATTORE 12 => FATTORE HAGEMAN – Proteina prodotta dal fegato con un p.m. di 80000 Dalton, una emivita di 60 ore circa, si attiva per contatto con superfici estranee aventi carica elettrica negativa (es. Caolino) o per contatto con il connettivo sottoendoteliare. Ha anche una debole attività anticoagulativa e fibrinolitica. Possiede un dominio GLA-domain e la sua produzione epatica dipende dalla disponibilità di vitamina K ridotta.
FATTORE 13 => FIBRINOLIGASI – è una proteina tetramerica plasmatica dal p.m. di 320000 Dalton, concentrazione da 10 a 20 mg/ml, è composta da due subunità A e B, di cui le subunità A esercitano un’azione catalitica stabilizzando la fibrina. L’azione proteolitica della trombina determina la formazione del fattore attivato che opera la polimerizzazione della fibrina in protofibrille solubili. E’ prodotta dal fegato ed è presente in parte anche nei megacariociti.
FATT. VON WILLEBRAND => proteina a elevato peso molecolare, circola nel plasma e viene sintetizzato nelle cellule endoteliari e nei megacariociti come monomero dal quale successivamente derivano i multimeri che si localizzano nella matrice sottoendoteliare. I multimeri a più elevato grado di polimerizzazione esprimono la maggiore efficacia emostatica. Ne sono ricche le piastrine e le cellule dell’endotelio. Agisce nell’emostasi primaria aumenta il grado di legame delle piastrine promuovendo il fenomeno dell’adesione e dell’aggregazione piastrinica. Legando il F8 circolante lo protegge dall’azione degradante delle proteasi lo localizza in prossimità delle membrane piastriniche. La carenza di VWF viene trasmessa come carattere autosomico dominante.
FATT. PK => PRECALLICREINA -
FATT. HMWK => CHININOGENO AD ALTO PESO MOLECOLARE o FATTORE WILLIAMS -
PROTEINA C o PROTEINA APC => Viene prodotta dal fegato in forma già di per se attiva, in presenza di trombina ioni calcio e trombomodulina (una proteina di membrana delle cellule endoteliari) si inattiva perdendo la capacità di legare e attivare il F5. La forma inattiva corrisponde al Fattore APC che agisce come anticoagulante inattivando il F5 e il F8, stimolando la fibrinolisi e proteggendo l’attivatore tissutale del plasminogeno. Possiede un dominio GLA-domain e la sua produzione epatica dipende dalla disponibilità di vitamina K ridotta.
PROTEINA S => è una glicoproteina prodotta da fegato, endotelio e megacariociti. Agisce da cofattore della proteina APC aiutando nella degradazione di F5 e F8 attivati. Possiede un dominio GLA-domain e la sua produzione epatica dipende dalla disponibilità di vitamina K ridotta.
EPARINA => viene sintetizzata dalle mastocellule e viene escreta nel plasma come aminoglicani a diverso grado di solforazione che si associano a un nucleo proteico formando un complesso proteoglicano. La degradazione dell’eparina circolante è di tipo enzimatico e la sua completa rimozione è attuata dalle cellule del sistema reticolo endoteliare. Ha una fondamentale azione anticoagulante che viene svolta tramite cofattori eparinici quali il cofattore 1 e il cofattore 2.
ANTITROMBINA 3 => E’ il cofattore 1 dell’eparina. E’ una alfa-2-globulina appartenente alla famiglia proteica delle serpine (serin protease inhibitor), sintetizza dal fegato e dotata di un effetto inibitore sui fattori della coagulazione appartenenti al gruppo delle serine-proteasi. Esprime la sua inibizione fomando complessi irreversibili con la molecola da inibire, principalmente trombina, F10, F9, F11, F8. La presenza in circolo di eparina accelera l’attività inibente dell’AT3 nei confronti della trombina. L’azione preferenziale per la trombina avviene tramite la formazione di un complesso che inibisce l’azione proteolitica ma successivamente si distacca e si rende disponibile per altre molecole.
COFATTORE EPARINICO 2 => è il secondo cofattore, esercita un’azione antitrombina specifica sotto l’azione catalitica dell’eparina non legata al fattore AT3.
VALORI NORMALI DEI TEST PER LA VALUTAZIONE DELLA COAGULAZIONE
TEMPO DI COAGULAZIONE (Metodo di Lee-White) => da 4 a 8 minuti
TEMPO DI COAGULAZIONE ATTIVATO (celite) => < 100 secondi
TEMPO DI PROTROMBINA => da 11 a 13 secondi ± 2 secondi rispetto al controllo normale
TEMPO DI TROMBOPLASTINA PARZIALE => da 60 a 85 secondi
TEMPO DI TROMBOPLASTINA PARZIALE ATTIVATA => da 30 a 40 secondi ± 5 secondi
TEMPO DI TROMBINA => 10-15 secondi o un tempo non superiore a 1,3 volte lo standard
FIBRINOGENEMIA => 150-450 mg/dL
TEMPO DI LISI DEL COAGULO (urea 5M) => coagulo intatto dopo 1 ora, lisi dopo 24 ore
TEMPO DI LISI DELLE EUGLOBULINE => lisi in 2-6 ore
DOSAGGIO FDP SU PARTICELLE DI LATTICE => < 20 microgrammi/millilitro
DOSAGGIO FDP SU GLOBULI ROSSI TANNATI => < 5 microgrammi/millilitro
TEST FUNZIONALE PER ANTITROMBINA 3 => > 50 % di un pool di sieri normali
08 febbraio, 2010
Aperitivi sotto accusa: possono favorire la comparsa di tumore? Perplessità fra gli amanti dell'happy hour...
Uno studio condotto da un pool di ricercatori dell'Università del Minnesota e i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Cancer Epidemiology, Biomarkers and Prevention, della American Association for Cancer research, sta destando perplessità in milioni di persone amanti del cosiddetto "happy hour": basterebbero due drink leggeri alla settimana per raddoppiare o quasi il rischio di tumore al pancreas, uno dei più mortali con soltanto il 5% di tasso di sopravvivenza a cinque anni.
Mark Pereira, autore dello studio e professore associato alla School of Public Health presso la University of Minnesota, ha detto che le persone che consumano bevande analcoliche su base regolare, ossia bibite zuccherate e gasate, corrono più rischi perchè "gli alti livelli di zucchero nelle bevande analcoliche può aumentare il livello di insulina nel corpo, che riteniamo contribuisca alla crescita delle cellule tumorali nel pancreas in soggetti predisposti in modo ereditario o che vengono predisposti da un contemporaneo uso di possibili sostanze procancerogene, come ad esempio il fumo di sigaretta".
Per lo studio in corso, Pereira e i suoi colleghi hanno seguito 60.524 uomini e donne nel Singapore Chinese Health Study per 14 anni. Durante questo periodo, ci sono stati 140 casi di cancro al pancreas. Coloro che hanno consumato due o più bevande analcoliche a settimana (una media di cinque a settimana) avevano un rischio aumentato dell'87% rispetto ai soggetti che non bevevano. Strano ma vero, nessun pericolo invece parrebbe trarre origine dai normali succhi di frutta, forse per una concentrazione più alta di fruttosio piuttosto che di glucosio.
Susan Mayne, direttore associato della Yale Cancer Center e professoressa di epidemiologia presso la Yale School of Public Health, ha detto che i risultati dello studio sono interessanti, ma hanno alcune importanti limitazioni che dovrebbero essere considerate prima di saltare a conclusioni: "Sebbene da questo studio sia emerso un rischio, la conclusione è basata su un numero relativamente limitato di casi e non è chiaro se sia un nesso causale o meno. Il consumo di bevande analcoliche a Singapore è stato associato a numerosi altri comportamenti nocivi per la salute come il fumo e l'assunzione di carne rossa, che non possiamo controllare altrettanto accuratamente".
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Mark Pereira, autore dello studio e professore associato alla School of Public Health presso la University of Minnesota, ha detto che le persone che consumano bevande analcoliche su base regolare, ossia bibite zuccherate e gasate, corrono più rischi perchè "gli alti livelli di zucchero nelle bevande analcoliche può aumentare il livello di insulina nel corpo, che riteniamo contribuisca alla crescita delle cellule tumorali nel pancreas in soggetti predisposti in modo ereditario o che vengono predisposti da un contemporaneo uso di possibili sostanze procancerogene, come ad esempio il fumo di sigaretta".
Per lo studio in corso, Pereira e i suoi colleghi hanno seguito 60.524 uomini e donne nel Singapore Chinese Health Study per 14 anni. Durante questo periodo, ci sono stati 140 casi di cancro al pancreas. Coloro che hanno consumato due o più bevande analcoliche a settimana (una media di cinque a settimana) avevano un rischio aumentato dell'87% rispetto ai soggetti che non bevevano. Strano ma vero, nessun pericolo invece parrebbe trarre origine dai normali succhi di frutta, forse per una concentrazione più alta di fruttosio piuttosto che di glucosio.
Susan Mayne, direttore associato della Yale Cancer Center e professoressa di epidemiologia presso la Yale School of Public Health, ha detto che i risultati dello studio sono interessanti, ma hanno alcune importanti limitazioni che dovrebbero essere considerate prima di saltare a conclusioni: "Sebbene da questo studio sia emerso un rischio, la conclusione è basata su un numero relativamente limitato di casi e non è chiaro se sia un nesso causale o meno. Il consumo di bevande analcoliche a Singapore è stato associato a numerosi altri comportamenti nocivi per la salute come il fumo e l'assunzione di carne rossa, che non possiamo controllare altrettanto accuratamente".
Un kit per prevedere le malattie genetiche? Una bomba bioetica in arrivo
Un recente articolo del quotidiano britannico "Times" annuncia che sarà presto possibile, alla modica cifra di 700 sterline inglesi, acquistare presso la "Bridge Fertility Clinic" di Londra un kit che consentirà, mediante un veloce esame del sangue, di pronosticare se e in che percentuale i futuri figli di una coppia potranno sviluppare malattie genetiche come la fibrosi cistica, la sclerosi multipla, l'anemia falciforme e altre ancora.
La compagnia statunitense che lo ha prodotto, la Consyl, avrebbe annunciato di voler lanciare una campagna online per favorire la vendita a livello mondiale.
L'annuncio ha tuttavia sollevato grandi polemiche, in primis fra i medici convinti che il nuovo test possa essere un pretesto per trarre profitto sulle paure dei futuri genitori e che le probabilità di predizione non saranno tali da consentire un valido strumento di controllo.
Se i risultati del test svelano che la coppia e' portatrice di geni associati a malattie genetiche, i futuri genitori potrebbero scegliere di non avere figli o di utilizzare la fecondazione in vitro per avere la garanzia di un figlio sano. Cosi come dichiarato alla stampa dall'AD della società Consyl, Balaji Srinivasan, "Il test è qualcosa che tutti gli adulti dovrebbero avere prima di fare un bambino. Le coppie hanno il diritto fondamentale di conoscere il loro stato di portatore e di prendere decisioni riproduttive, sulla base di tale status, senza interferenze esterne". Rincara la dose Alan Thornhill, medico della clinica "Questo e' qualcosa che la coppia può fare per ridurre il rischio a un costo ragionevole, dato che queste malattie sono molto rare ma hanno anche un costo sociale altissimo".
Ovviamente esistono già da tempo dei servizi di "consultorio genetico" che possono essere di valido aiuto per le coppie al fine di individuare eventuali possibili complicazioni nella genesi di prole. Tuttavia l'introduzione di strumenti genetici che consentono di fare predizioni direttamente dal tavolo di casa potrebbe essere una vera "bomba bioetica". Che conseguenze possono avere sui rapporti interumani il sapere con largo anticipo se una relazione può dare o meno figli con problemi genetici? E' una delle tante domande che nei prossimi anni, se non mesi, potrebbero salire all'attenzione nazionale.
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La compagnia statunitense che lo ha prodotto, la Consyl, avrebbe annunciato di voler lanciare una campagna online per favorire la vendita a livello mondiale.
L'annuncio ha tuttavia sollevato grandi polemiche, in primis fra i medici convinti che il nuovo test possa essere un pretesto per trarre profitto sulle paure dei futuri genitori e che le probabilità di predizione non saranno tali da consentire un valido strumento di controllo.
Se i risultati del test svelano che la coppia e' portatrice di geni associati a malattie genetiche, i futuri genitori potrebbero scegliere di non avere figli o di utilizzare la fecondazione in vitro per avere la garanzia di un figlio sano. Cosi come dichiarato alla stampa dall'AD della società Consyl, Balaji Srinivasan, "Il test è qualcosa che tutti gli adulti dovrebbero avere prima di fare un bambino. Le coppie hanno il diritto fondamentale di conoscere il loro stato di portatore e di prendere decisioni riproduttive, sulla base di tale status, senza interferenze esterne". Rincara la dose Alan Thornhill, medico della clinica "Questo e' qualcosa che la coppia può fare per ridurre il rischio a un costo ragionevole, dato che queste malattie sono molto rare ma hanno anche un costo sociale altissimo".
Ovviamente esistono già da tempo dei servizi di "consultorio genetico" che possono essere di valido aiuto per le coppie al fine di individuare eventuali possibili complicazioni nella genesi di prole. Tuttavia l'introduzione di strumenti genetici che consentono di fare predizioni direttamente dal tavolo di casa potrebbe essere una vera "bomba bioetica". Che conseguenze possono avere sui rapporti interumani il sapere con largo anticipo se una relazione può dare o meno figli con problemi genetici? E' una delle tante domande che nei prossimi anni, se non mesi, potrebbero salire all'attenzione nazionale.
Spagna: un nuovo prodotto da corporation dermoestetica
Tempo fa abbiamo parlato in un articolo di come nella penisola iberica stia riscuotendo successo una tecnica di dimagrimento basata sull'introduzione del "palloncino intragastrico", un trattamento non chirurgico ma, come già detto in passato, certamente invasivo tanto da determinare la comparsa di una serie di forum online in cui si sostengono numerosi dibattiti in merito all’efficacia dell’uso di tale procedura.
Le ultime notizie parlano di come anche la famosa società spagnola corporation dermoestetica, leader nel settore dell'estetica, si sia introdotta in questo "business". Come spiegato nel loro sito, la tecnica del palloncino intragastrico è un trattamento solitamente indicato per persone gravemente obese e che vogliono ricorrere a un’alternativa rispetto al trattamento chirurgico dell'obesità sia per evitare i rischi chirurgici associati a un eccesso di massa grassa e sia per avere un’alternativa che consenta di attuare un dimagrimento anche in presenza di eventuali complicanze. Si tratta di un palloncino espandibile in silicone che viene inserito attraverso il cavo orale per mezzo di una tecnica endoscopica e viene quindi posizionato nello stomaco. Una volta collocato il palloncino viene riempito con soluzione fisiologica sterile tra 400 e 700 cc, in relazione all’eccesso di peso e al volume della camera gastrica del paziente. L'obiettivo è quello di creare una sensazione di pienezza continua perché andando ad occupare gran parte dello stomaco mantiene la parete espansa e fornisce la tipica sensazione di pienezza gastrica come si fosse già consumato un pasto.
Sempre leggendo dal loro sito, la società corporation dermoestetica afferma come il successo di questa tecnica è legata al fatto che durante la durata del trattamento il paziente è sotto controllo medico al fine di monitorare la loro dieta e confermare se questa è abbastanza ricca, varia ed equilibrata, in modo da raggiungere la perdita di peso in modo sicuro per la loro salute.
In generale la società sostiene di come il paziente possa perdere peso gradualmente e costantemente circa un chilo a settimana e di come sia essenziale modificare le abitudini alimentari al fine di mantenere i risultati anche dopo aver pienamente ritirato il palloncino intragastrico. Una rieducazione alimentare garantire la costante modelli sani per l'alimentazione durante e dopo il trattamento e il modo duraturo.
L’effetto del "Balón intragástrico" è paragonabile a quello degli interventi di restrizione gastrica in quanto il pallone intragastrico (BIB) induce un precoce senso di sazietà durante i pasti. Anche se la mortalità è inferiore allo 0,1%, l’intervento non è privo di complicanze, infatti le complicazioni a cui possono andare incontro i pazienti operati con il palloncino intragastrico (BIB) sono: Nausea e vomito, che in molti casi possono persistere per molto tempo; senso di pesantezza addominale, dovuto ovviamente alla collocazione de palloncino; dolori addominali o dorsali, sia permanenti che ciclici; reflusso gastroesofageo; ostruzione intestinale nei casi in cui il palloncino non è sufficientemente riempito oppure se ha una diminuzione del suo volume; ostruzione esofagea con frequente reflusso gastroesofageo e danni all’epitelio dell’esofago; asma da reflusso. Ulteriori informazioni possono essere lette sul loro sito. la società corporation dermoestetica mette a disposizione una pagina con le domande più frequenti e un form per ottenere ulteriori informazioni (il sito è in lingua spagnola).
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Le ultime notizie parlano di come anche la famosa società spagnola corporation dermoestetica, leader nel settore dell'estetica, si sia introdotta in questo "business". Come spiegato nel loro sito, la tecnica del palloncino intragastrico è un trattamento solitamente indicato per persone gravemente obese e che vogliono ricorrere a un’alternativa rispetto al trattamento chirurgico dell'obesità sia per evitare i rischi chirurgici associati a un eccesso di massa grassa e sia per avere un’alternativa che consenta di attuare un dimagrimento anche in presenza di eventuali complicanze. Si tratta di un palloncino espandibile in silicone che viene inserito attraverso il cavo orale per mezzo di una tecnica endoscopica e viene quindi posizionato nello stomaco. Una volta collocato il palloncino viene riempito con soluzione fisiologica sterile tra 400 e 700 cc, in relazione all’eccesso di peso e al volume della camera gastrica del paziente. L'obiettivo è quello di creare una sensazione di pienezza continua perché andando ad occupare gran parte dello stomaco mantiene la parete espansa e fornisce la tipica sensazione di pienezza gastrica come si fosse già consumato un pasto.
Sempre leggendo dal loro sito, la società corporation dermoestetica afferma come il successo di questa tecnica è legata al fatto che durante la durata del trattamento il paziente è sotto controllo medico al fine di monitorare la loro dieta e confermare se questa è abbastanza ricca, varia ed equilibrata, in modo da raggiungere la perdita di peso in modo sicuro per la loro salute.
In generale la società sostiene di come il paziente possa perdere peso gradualmente e costantemente circa un chilo a settimana e di come sia essenziale modificare le abitudini alimentari al fine di mantenere i risultati anche dopo aver pienamente ritirato il palloncino intragastrico. Una rieducazione alimentare garantire la costante modelli sani per l'alimentazione durante e dopo il trattamento e il modo duraturo.
L’effetto del "Balón intragástrico" è paragonabile a quello degli interventi di restrizione gastrica in quanto il pallone intragastrico (BIB) induce un precoce senso di sazietà durante i pasti. Anche se la mortalità è inferiore allo 0,1%, l’intervento non è privo di complicanze, infatti le complicazioni a cui possono andare incontro i pazienti operati con il palloncino intragastrico (BIB) sono: Nausea e vomito, che in molti casi possono persistere per molto tempo; senso di pesantezza addominale, dovuto ovviamente alla collocazione de palloncino; dolori addominali o dorsali, sia permanenti che ciclici; reflusso gastroesofageo; ostruzione intestinale nei casi in cui il palloncino non è sufficientemente riempito oppure se ha una diminuzione del suo volume; ostruzione esofagea con frequente reflusso gastroesofageo e danni all’epitelio dell’esofago; asma da reflusso. Ulteriori informazioni possono essere lette sul loro sito. la società corporation dermoestetica mette a disposizione una pagina con le domande più frequenti e un form per ottenere ulteriori informazioni (il sito è in lingua spagnola).
04 febbraio, 2010
Darth Vader è guarito dal cancro. Lato oscuro? No, diagnosi celere
Il cancro alla prostata è uno di quei tipi di tumore che può essere curato se scoperto per tempo. E proprio grazie a una diagnosi precoce David Prowse, l'attore settantaquattrenne che ha interpretato il cattivo Darth Vader nei primi tre film di Star Wars è ufficialmente guarito dal cancro alla prostata. Lo riporta il giornale inglese "Daily Mirror". L'attore ha raccontato al giornale di avere ricevuto il "tutto ok" il mese scorso, stupendo i dottori con la sua completa guarigione dopo un'intensiva radioterapia al London's Royal Marsden Hospital. Parlando da casa sua a Croydon, Surrey, David ha detto: "Ho vinto la battaglia e mi sento meglio che mai. Sono rimasti tutti stupefatti da come è andata."
Prowse ha scoperto di avere il cancro durante una manifestazione benefica in cui faceva da testimonial per un instituto della cura delle patologie andrologiche quando un medico gli chiese pubblicamente se era stato sottoposto mai in passato a regolari controlli. Dopo una risposta curiosa e un pò indispettita e un rifiuto a farsi sottoporre a un controllo, l'attore si preoccupò e dopo una successiva visita al centro si sottopose subito a un'analisi del sangue dove i valori di PSA erano palesemente alterati.
Ora è l'attore stesso a sollecitare gli altri uomini oltre i 50 anni di età per fare il test al fine di individuare la malattia allo stato iniziale. Egli ha dichiarato: "Attraverso il mio ruolo di testimonial ci sono persone che dicono che ho salvato le loro vite. Ho ottenuto lo stesso risultato rispetto a quando facevo il supereroe per la "Croce Verde" (un'associazione inglese che si curava della sicurezza stradale dei bambini) e ora sta accadendo di nuovo."
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Prowse ha scoperto di avere il cancro durante una manifestazione benefica in cui faceva da testimonial per un instituto della cura delle patologie andrologiche quando un medico gli chiese pubblicamente se era stato sottoposto mai in passato a regolari controlli. Dopo una risposta curiosa e un pò indispettita e un rifiuto a farsi sottoporre a un controllo, l'attore si preoccupò e dopo una successiva visita al centro si sottopose subito a un'analisi del sangue dove i valori di PSA erano palesemente alterati.
Ora è l'attore stesso a sollecitare gli altri uomini oltre i 50 anni di età per fare il test al fine di individuare la malattia allo stato iniziale. Egli ha dichiarato: "Attraverso il mio ruolo di testimonial ci sono persone che dicono che ho salvato le loro vite. Ho ottenuto lo stesso risultato rispetto a quando facevo il supereroe per la "Croce Verde" (un'associazione inglese che si curava della sicurezza stradale dei bambini) e ora sta accadendo di nuovo."
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