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AFORISMA DEL GIORNO

23 gennaio, 2012

In Lombardia e in Veneto maggiore trasparenza sui costi delle prestazioni sanitarie, obiettivo il combattere gli sprechi

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In tempi di lotta agli sprechi e caccia agli scontrini, anche il mondo della sanità ha deciso di ‘presentare il conto’. Nel senso di esporre al contribuente, in tutte le comunicazioni che lo riguardano – schede di dimissioni comprese – i costi delle prestazioni sanitarie ricevute con la quota sborsata dal Servizio sanitario regionale (Ssr) e quella eventuale pagata dal cittadino. L’obiettivo è far capire che a fronte di un ticket di 60 euro per un intervento di protesi all’anca, il Ssr ne spende in realtà 10mila, ed evitare così esami e interventi inutili. Quello dei malati immaginari e degli esami fatti in modo inappropriato è uno ‘scherzetto’ che, secondo alcune stime del Centro di terapia strategica di Arezzo, costa otto miliardi di euro l’anno, pari al 7 per cento della spesa complessiva del Servizio sanitario nazionale.

Prima ad adottare questa strategia di ‘responsabilizzazione’ è stata la Lombardia, che con le nuove linee guida per il 2012 approvate poco prima di Natale, ha previsto l’obbligo per tutti i medici e gli ospedali di esporre i costi delle prestazioni sanitarie sui referti (per ricoveri e specialistica) con l’eventuale quota a carico del cittadino dal prossimo primo marzo. E questo sia nelle lettere di dimissione che in tutte le comunicazioni con il paziente. E da qualche giorno il percorso è iniziato anche in Piemonte, grazie alla proposta lanciata da Mauro Salizzoni, direttore del Centro Trapianti di fegato delle Molinette di Torino, subito raccolta dal Presidente della Regione Piemonte, Roberto Cota, che si è mostrato entusiasta.

“Bisogna comunicare ai degenti che usufruiscono di strutture ospedaliere pubbliche, il costo economico delle prestazioni – spiega il chirurgo – a partire dagli interventi chirurgici, trapianti compresi, affinché ci sia la massima consapevolezza del valore della sanità pubblica e dell’importanza di difenderla per permettere a tutti, e non solo alle persone più abbienti, di vedersi curare”. Secondo Salizzoni il Servizio sanitario nazionale è sempre più “indifeso e non viene apprezzato per quello che è, ma dato per scontato. Questa mi sembra una misura di buon senso. Io, per esempio – ha aggiunto – con i miei quattro interventi chirurgici, di cui uno molto delicato alla testa, fino ad oggi sono costato allo Stato italiano 130mila euro”.

Lo stesso principio ha ispirato la giunta lombarda, che, secondo le parole dell’assessore alla Sanità Luciano Bresciani, vuole fare “un’operazione di trasparenza e corresponsabilità, per far sapere al cittadino in quale parte la comunità finanzia, con le sue tasse, le prestazioni sanitarie che riceve, e a quanto ammonta il suo contributo specifico”. Così il contribuente lombardo saprà ad esempio che il suo intervento di appendicectomia costa in realtà 1700 euro, che per un bypass coronarico si spendono oltre 22mila euro, 600-800 un giorno di ricovero in ospedale o 3.300 euro per una polmonite. Tuttavia non sono mancate le critiche. Il presidente dell’ordine dei medici di Milano, Roberto Carlo Rossi, ha definito la misura “umiliante perché il cittadino per essere curato dal servizio sanitario paga già la tasse. L’obiettivo è indurlo a risparmiare”. Non tutti però sono stati dello stesso avviso. Parole di apprezzamento sono arrivate da altri ordini medici e dai componenti del comitato centrale della Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnomceo). “Mi sembra un segno di trasparenza e responsabilità – rileva Guido Marinoni – Visto che le risorse non sono illimitate è bene che tutti siano responsabilizzati. E comunque mi sembra che in questo momento i problemi importanti siano altri”. Il prossimo passo è capire se mostrare il ‘conto’ delle spese basterà per responsabilizzare e dissuadere il cittadino dal fare esami non sempre necessari.

FONTE: il fatto quotidiano.it
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Ricerche falsate e vino rosso: dubbi sull'effetto benefico del resveratrolo

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Chi non ha mai sentito nominare il resveratrolo? Quel principio attivo antiossidante contenuto per esempio nell’uva e nel vino rosso? Quasi tutti, immaginiamo. E quasi tutti abbiamo sentito decantarne le lodi da più e più parti, tanto che è stato quasi paragonato a un rimedio miracoloso preventivo per una gran miriade di malattie ed elisir di lunga vita. Solo che, forse, non è proprio così.

Fermo restando che il resveratrolo è in ogni caso un antiossidante, le sue proprietà non sarebbero migliori di tante altre sostanze simili che, tuttavia, sono comunque benefiche. A quanto sembra però queste sue fantastiche proprietà sarebbero il risultato di una frode scientifica a opera di un ricercatore, tale dottor Dipak Das, già Direttore del Cardiovascular Research Center dell’Università del Connecticut (Usa) che avrebbe condotto diversi studi in cui si evidenziano ben 145 “inesattezze” o frodi che dir si voglia. L’indagine cha ha portato alla scoperta della vicenda è partita dopo una segnalazione anonima giunta nel 2008 all’agenzia federale Office of Research Integrity. Questa, dopo aver raccolto una gran mole di materiale, ha avvisato i responsabili dell’Università del Connecticut.

I commenti della comunità scientifica non si sono fatti attendere e, per qualcuno, il dottor Das non è un personaggio di gran rilievo, per cui... Qualcun altro ha fatto notare che il dottor Das è detentore di numerosi brevetti e coinvolto in affari proprio con aziende che commercializzano, guarda caso, prodotti a base di resveratrolo. Altri scienziati ancora hanno detto che, per contro, vi sono numerosi studi scientifici seri che hanno evidenziato le proprietà salutari e benefiche del resveratrolo, quindi la sua fama è in qualche modo meritata. Quale che sia la verità, il fatto certo è che quando ci sono di mezzo i soldi c’è sempre qualcuno che non si fa scrupolo di modificare i fatti in modo che ne abbia un tornaconto personale. Certo che, quando si tratta di salute, è ancora più deplorevole.

Dopo aver avvertito le numerose riviste scientifiche che hanno pubblicato i lavori del dottor Das, e averle inviate a pubblicare le smentite, la prima reazione da parte dell’Università è stata l’annuncio della restituzione degli 890mila dollari assegnati dal National Heart, Lung and Blood Institute, del National Institutes of Health, proprio al ricercatore come sovvenzione alle ricerche. Altri fondi sono nel frattempo stati bloccati. Lo stesso dottor Das è stato messo al corrente del suo imminente licenziamento.

Un responsabile dell’Università del Connecticut ha espresso tutto il suo rammarico e delusione per il disprezzo dei codici di condotta, ricordando che tuttavia questo episodio non riflette una mancanza di serietà dell’ateneo e non intacca l’integrità delle ricerche biomediche.
Sebbene non si metta in dubbia la serietà della ricerca scientifica, è purtroppo sconsolante constatare che vi possa essere chi gioca con i dati dimostrando un palese conflitto di interessi. Così come auspicato dall’Università, speriamo che in futuro vi siano maggiori controlli sui risultati degli studi e le affermazioni di certi ricercatori.

FONTE: lastampa.it
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20 gennaio, 2012

Lupus, scoperto un interruttore genetico che accelera il decorso della malattia

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Un ‘interruttore genetico’ in grado di rendere ancora più “feroce” il Lupus, la malattia autoimmune che colpisce soprattutto il sesso femminile. A scoprirlo i ricercatori della facoltà di Medicina della Cattolica di Roma. Un risultato che – secondo quanto spiegato Gianfranco Ferraccioli, docente di Reumatologia e responsabile dell’Unità Operativa di Reumatologia e Medicina Interna CIC del Policlinico Gemelli – potrebbe condurre a nuove terapie più mirate ed efficaci contro questa complessa malattia, in particolare contro i casi più gravi e meno gestibili.

L’'interruttore' scoperto si chiama “enhancer HS1.2", agisce come il pedale di accelerazione dell’automobile e iperattiva una serie di geni che amplificano la risposta immunitaria patologica tipica della malattia. Il risultato finale è che le cellule immunitarie impazzite che producono gli anticorpi patologici, attaccano il corpo del paziente invece di difenderlo (autoanticorpi).

Lo studio che Ferraccioli ha realizzato insieme a Domenico Frezza della facoltà di Biologia dell’Università di Roma Tor Vergata e a Raffaella Scorza dell’Università Statale di Milano è stato recentemente pubblicato sulla rivista Annals of the Rheumatic Diseases.

Il Lupus eritematoso sistemico è una malattia autoimmune, cioè una patologia in cui il sistema immunitario del paziente va “in tilt” e comincia ad attaccare il corpo del paziente stesso, invece di difenderlo. È una malattia feroce come l’animale, il lupo, da cui prende il nome, per le caratteristiche chiazze rossastre (simili alle macchie sul pelo del lupo) che compaiono sul viso dei pazienti. Il Lupus colpisce in Italia circa 60.000 persone e la fascia di età più a rischio è quella tra i 15 e i 45 anni, con una netta preferenza per il sesso femminile. Si tratta di una malattia dai tanti volti perché colpisce diversi organi e tessuti e dà una molteplicità di sintomi che ne rendono anche difficile la diagnosi, tra cui dolori alle articolazioni, febbre, manifestazioni cutanee, perdita di capelli, raynaud, anemia, nefrite, cerebrite.

Le terapie oggi in uso contro il Lupus, ha spiegato Ferraccioli, si basano sull’uso oculato del cortisone, di farmaci antimalarici e immunosoppressori (azatioprina, micofenolato, ciclofosfamide) e negli ultimi anni anche di farmaci biologici (Rituximab, Belimumab). Ma ci sono parecchi casi in cui il Lupus si manifesta in modo più aggressivo e finora non era chiara l’origine di questa particolare gravità.

I ricercatori italiani hanno scoperto che il succo del problema risiede nell’interruttore di accelerazione enhancer HS1.2. In generale gli enhancer, potenziatori genetici, sono delle sequenze di dna deputate ad accelerare l'attivazione di geni limitrofi, da cui il nome. HS1.2 porta a un’attivazione potenziata del “fattore di trascrizione Nf-KB” (un fattore di trascrizione è una molecola che “legge” i geni per farli funzionare) che a sua volta aumenta enormemente l’aggressività dei processi infiammatori alla base della malattia.

In particolare, gli studiosi della Cattolica di Roma hanno scoperto che oltre il 30% del totale dei pazienti è portatore sul proprio Dna dell'enhancer HS1.2 e che questo causa una forma più grave di Lupus. Si è potuti giungere a questa scoperta dopo aver dimostrato negli ultimi due anni che l’enhancer HS1.2 favorisce l’insorgere di altre malattie autoimmuni come l’artrite reumatoide e la sclerodermia, ma soltanto in quest’ultimo studio è stato possibile definire, grazie anche alla cooperazione di ricercatori statunitensi, il meccanismo attraverso il quale l’enhancer genera la maggiore predisposizione alla malattia autoimmune.

«La nostra speranza, prima neppure ipotizzabile – ha spiegato Ferraccioli - è che bloccando l'enhancer HS1.2, o il suo effetto su Nf-KB, con farmaci specifici si possa fermare la malattia senza dover ricorrere a farmaci immunosoppressori o ad altre terapie che presentano non pochi effetti collaterali. Intanto – ha concluso – la scoperta del ruolo di questo enhancer permetterà di classificare in modo più accurato i pazienti e quindi formulare una prognosi più precisa indirizzandosi verso cure più personalizzate».

FONTE: Cattolica News
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Il "sesto senso" della lingua: esiste, ma non per tutti...

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C’è chi si alza da tavola pago e felice, dopo aver goduto di tutti i sapori che ci regalano le papille, compreso il grasso, ultimo arrivato tra i gusti. E c’è chi dei cibi ipercalorici non è mai soddisfatto, ma non sarebbe giusto etichettarlo come semplice goloso. Infatti l’ultimo studio in materia individua nel «fat» il sesto gusto della lingua (oltre al salato, dolce, aspro, amaro e il saporito, recentemente identificato) e parla anche di una variante ipoattiva di un gene che, in chi la possiede, non consente di percepire a sufficienza questo sesto sapore. E fa ingrassare le persone.

Per secoli si è ritenuto che gli esseri umani potessero percepire attraverso la lingua quattro sapori: dolce, salato, aspro e amaro. Poi ne è stato scoperto un quinto chiamato umami (saporito), e ora uno studio della Washington University School of Medicine ne aggiunge un sesto: il grasso. Gli scienziati americani hanno infatti individuato un recettore chimico nelle papille gustative della lingua che riconosce le molecole di grasso. Ma una proteina, che varia da persona a persona e che è incaricata di metabolizzare i lipidi, ne influenza la percezione e, se insufficiente, fa sì che di questo sesto gusto non se ne abbia mai abbastanza. Contribuendo all’obesità.

Lo studio, pubblicato sul Journal of Lipid Research, ha coinvolto 21 partecipanti sovrappeso invitati a degustare tre tipi di olio, uno dei quali ad alto contenuto di lipidi. L’individuazione dell’olio grasso non è stata facile per tutti i volontari e gli esperti hanno potuto notare diversi livelli di percezione. Inoltre esiste una proteina chiamata CD36 deputata a riconoscere il grasso e, se questa è carente, la sensibilità al grasso è ridotta, il che spiegherebbe il motivo per cui esistono persone che non si saziano mai di cibi ipercalorici. In particolare gli scienziati hanno notato che coloro che producono livelli più alti di CD36, rispetto a chi ne fabbrica la metà, percepiscono con maggior facilità la presenza di grassi negli alimenti e per l’esattezza la avvertono otto volte di più.

La ricercatrice Nada Abumrad, che insieme a M. Yanina Pepino ha guidato lo studio, sottolinea la valenza di questa intuizione: «Così si spiegherebbe l’obesità e quel senso di insoddisfazione perenne di cui soffre circa il 20 per cento della popolazione a tavola». Tra i volontari presi in esame c’erano individui con variante iperattiva del gene, ridotta o intermedia, ma gli studiosi hanno notato che la dieta stessa incoraggia questo meccanismo e un regime alimentare ad alto tasso di lipidi inibisce la produzione della proteina stimolando la fame di grassi e mettendo in moto una spirale. Gli studiosi americani sperano che la loro scoperta possa essere usata per combattere l'obesità.

FONTE: Corriere.it   Autrice: Emanuela di Pasqua
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I 90 anni dell'insulina iniettabile

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Avevano poco piu' di 11 anni quando, nel 1919, cominciarono a soffrire di quella 'strana' malattia la cui diagnosi equivaleva, allora, ad una condanna a morte nel giro di poche settimane: il diabete. Ma a Leonard ed Elizabeth la scienza avrebbe riservato una 'sorpresa' in grado di sconfiggere un destino che pareva ineluttabile. E' la scoperta dell'insulina iniettabile, nel 1921, ed i due bambini furono i primi, nel 1922, a ricevere quel trattamento che avrebbe salvato, dopo le loro, milioni di vite in tutto il mondo.

L'insulina e' un ormone prodotto dal pancreas, la cui funzione fondamentale e' quella di regolare il livello di glucosio nel sangue. Se la sua quantita' o funzione nell'organismo e' alterata, oppure se l'ormone e' totalmente mancante, la conseguenza e' il diabete, malattia cronica caratterizzata appunto dalla presenza di elevati livelli di glucosio nel circolo sanguigno (iperglicemia). Una malattia incurabile, fino al fatidico anno 1921, quando due medici canadesi - Fredrick Banting e Charles Best - riuscirono per la prima volta a isolare e produrre insulina estraendola dal pancreas del maiale o altri animali. L'anno successivo, l'11 gennaio 1922, l'insulina viene usata per la prima volta per curare il diabete in un essere umano. Il primo paziente fu proprio Leonard Thompson, e pochi mesi dopo, in agosto, anche Elizabeth inizio' il trattamento. Entrambi sono sopravvissuti anni grazie alla cura 'rivoluzionaria', per la quale nel 1923 Banting ricevette il Premio Nobel per la Medicina. Nel tempo gli studi proseguirono, fino ad arrivare alla messa a punto di insulina di derivazione sintetica. Oggi, a 90 anni dal primo trattamento con insulina sull'uomo, si sono fatti passi enormi nella cura di quella che si potrebbe definire una 'ex malattia incurabile'. E nuove formulazioni di 'insulina di nuova generazione' sono disponibili sul mercato, garantendo una maggiore efficacia e minori effetti collaterali.

Il diabete, pero', complice anche un peggioramento degli stili di vita, continua a diffondersi vertiginosamente. Gli esperti mettono in guardia: Sono 366 mln i malati nel mondo nel 2011 ma, secondo le previsioni, raggiungeranno il picco di 552 mln nel 2030. Si parla dunque di una 'epidemia globale' che sta interessando sempre di piu' anche i paesi dell'Asia e dell'Africa e che pone un grave problema di sostenibilita' economica: nell'arco di 10 anni, i vari sistemi sanitari nazionali non saranno infatti piu' in grado di 'reggere' i costi della 'emergenza diabete'. Anche il numero dei decessi resta alto - circa 3 mln ogni anno - perche', nonostante le migliori cure disponibili, pesano aggravanti come l'obesita' (sempre piu' diffusa nel mondo) e complicanze cardiovascolari. Oggi dunque la sfida contro il diabete sta, soprattutto, nella prevenzione, a partire dai corretti stili alimentari per ridurre i tassi di obesita', fattore strettamente collegato al diabete.

Ma di certo, la messa a punto della terapia insulinica ha segnato una svolta storica alla lotta contro questa malattia, aprendo la strada a nuove, possibili armi terapeutiche - dalle cellule staminali, ai trapianti di isole pancreatiche ai vaccini - che potrebbero portare, in futuro, ad una cura definitiva.


FONTE: Ansa.it
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Torino, i casi di TBC fra gli studenti di medicina colpa di un ceppo "nuovo"

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Sono di un ceppo molecolare che non figura negli archivi medici internazionali i quattro casi di Tbc che si sono verificati negli ultimi mesi dello scorso anno fra i tirocinanti di medicina a Torino. È quanto risulta alla Procura, che sta conducendo un’indagine e che, di recente, ha ipotizzato il reato di epidemia colposa. Il ceppo, identico per ciascuno dei quattro soggetti, è stato confrontato con i circa seimila raccolti nei database sanitari internazionali e non è simile a nessuno di essi.

Per questo filone di indagine il pm Raffaele Guariniello si è avvalso della collaborazione di un esperto di Milano. Ad ammalarsi sono stati i tirocinanti che hanno frequentato vari reparti dell’ospedale Molinette. Due responsabili - i professori Ezio Ghigo e Rossana Cavallo, rispettivamente preside della facoltà di Medicina e chirurgia e presidente del corso di laurea - sono stati iscritti nel registro degli indagati. Gli inquirenti hanno sollevato dei dubbi anche sulla salubrità dei locali adibiti ad aule universitarie per gli studenti.

FONTE:  La Stampa.it

Di seguito l'articolo uscito giorno 2 gennaio 2011 sul sito del Corriere (autore Marco Pappagallo):


Corso di laurea in medicina a Torino. Studenti del IV anno, canale A, tirocinanti nei reparti ospedalieri delle Molinette. Centosessantatre studenti in tutto. Tra di loro cinque malati di tubercolosi e al momento 25 positivi (18,12%) al batterio della tbc, pur non avendo contratto la malattia, test su circa 137 studenti controllati. In tutto, compresi i malati, quasi un terzo i contagiati. Numeri da Terzo Mondo. Il quinto caso è stato scoperto ora, una giovane malata asintomatica. E senza l’apertura di un’inchiesta, forse questi numeri sarebbero rimasti nell’ombra con il rischio di allargare contagio e malattia tra studenti e studenti, studenti e malati ricoverati, medici e infermieri delle Molinette. Sotto controllo ora anche gli studenti del canale B e, per ordine della Procura, sono state acquisite tutte le cartelle cliniche dei pazienti con cui sono venuti a contatto i tirocinanti. Il preside della Facoltà di medicina, Ezio Ghigo, e la presidente del corso di laurea, Rossana Cavallo, sono stati iscritti nel registro degli indagati per tre ipotesi di reato: disastro colposo (che significa mettere in pericolo l’incolumità di un numero indeterminato di persone), lesione personale e colposa, epidemia colposa. Almeno due di questi reati prevedono fino a 5 anni di reclusione.

L’inchiesta era partita dopo che lo scorso ottobre una studentessa del canale A del corso di medicina interna che svolgeva il tirocinio all’ospedale Molinette era stata ricoverata all’Amedeo di Savoia per aver contratto la tubercolosi. La giovane ventiduenne era arrivata a tossire sangue, come avveniva nei secoli scorsi quando il “mal sottile” mieteva vittime in Europa. Un passo indietro nelle storia. La Procura di Torino aveva poi scoperto altri quattro casi che si erano verificati nell'ultimo anno e mezzo tra i compagni di corso della ragazza. Il primo nel 2010. Nei giorni scorsi il procuratore Raffaele Guariniello ha, inoltre, ricevuto la querela congiunta della studentessa ricoverata all’Amedeo di Savoia, dei suoi familiari e del fidanzato. Tutti costretti a sottoporsi alla profilassi con antibiotici per evitare il contagio. Almeno sei mesi. Mentre per i malati la cura deve andare avanti anche per 18-24 mesi. Con il rischio, seppur raro, di complicazioni al fegato. L’ultima studentessa ammalata, scoperta solo grazie all’inchiesta, ha una tubercolosi per ora asintomatica, ma già infettiva, ed ha avuto un altro tipo di complicazione: è allergica ai farmaci. Su 4 malati è stato possibile individuare il profilo del ceppo. Lo stesso per tutti: Miru-Vntr 24. E ciò fa pensare ad un contagio di gruppo, del quale la Procura sta cercando l’origine.

Intanto continuano i test sui 163 studenti del canale A di medicina interna: fino a oggi ne sono stati controllati 137, ne mancano 26 all’appello. Ed è partito uno screening anche sugli aspiranti medici del canale B, quelli senza casi di malattia: su 89 sottoposti a test, due sono risultati positivi (il 2,25 per cento, dato considerato nella norma). Quali le responsabilità? La prima è che l’università ha «chiuso due occhi» nonostante le segnalazioni di studenti ammalatisi arrivate dalle Molinette. Grave. Gli studenti che frequentano le corsie sono da considerare lavoratori e come tali da sottoporre a controlli prima e durante il tirocinio. La seconda è che c’è un Dpr del 2001 che prevede la vaccinazione anti-Tbc per tutti gli studenti di medicina. Di questo Dpr l’università di Torino non ha mai tenuto conto. Terza responsabilità: l’obbligo di segnalare all’Asl i casi di malattie infettive. Senza l’inchiesta di questi casi di tubercolosi non si sarebbe mai saputo nulla. Anche per la “vergogna” di far sapere in giro di aver preso la Tbc. Roba da immigrati. La prima studentessa (di Cuneo) colpita nel 2010 si è infatti curata a Genova, quasi di nascosto. Quarta responsabilità: il corso è stato sospeso soltanto il 14 novembre, nonostante la segnalazione della Asl di fine ottobre, e dopo che su Facebook si parlava da tempo della studentessa ricoverata e di altri 2-3 contagiati in precedenza.

Guariniello ha informato della situazione il ministero della Salute ed ha subito attivato un Osservatorio sulle malattie infettive. In pochi giorni sono stati individuati casi anche in due scuole materne, in un liceo, e alle Molinette stesse. Due dipendenti di una ditta che svolge pulizie all’interno dell’ospedale risultate positive. Non solo. Il tre dicembre è stato reso noto il caso di un infermiere del day hospital dell’Amedeo di Savoia colpito da una forma contagiosa della malattia. E’ bene ricordare che il periodo di incubazione della tubercolosi può essere molto lungo: anche trent’anni. Il 5 per cento di chi è contagiato sviluppa la malattia entro due anni, un altro 5 per cento è destinato ad ammalarsi nel resto della vita. Dopo la trasmissione della malattia tra i tirocinanti di Medicina, era risultato positivo anche un medico dell’Endoscopia diagnostica del Maria Vittoria. Insomma basta indagare che i casi fioccano.

C’è anche un altro problema. Possono degli studenti di medicina frequentare i reparti senza essere stati prima sottoposti a controlli per verificare la positività alla tbc o se si sono vaccinati per le principali malattie infettive? Assolutamente no. Negli Stati Uniti e nel resto d’Europa vengono vaccinati anche gli stranieri che frequentano per pochi mesi. A tutela loro e dei malati con i quali vengono in contatto. In Italia invece non si fa. E se gli aspiranti camici bianchi vengono formati così… quali medici diventeranno domani?




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Diabete e morbo di Alzheimer, una relazione "pericolosa"

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L’Alzheimer come il diabete? A lanciare questa ipotesi ci ha pensato un gruppo di ricercatori del Cnr e dell’Università di Palermo, dopo aver condotto uno studio relativo ai meccanismi  di collegamento tra questa malattia celebrale e la riduzione del livello di insulina  nel sangue. La ricerca, pubblicata su Aging Cell potrebbe aprire le porte alla messa a punto di nuovi farmaci.

La ricerca ha messo in luce i meccanismi molecolari in comune tra la patologia di Alzheimer ed il diabete di tipo due. Il tutto è nato dalla collaborazione tra gli Istituti di biomedicina e immunologia molecolare (Ibim) e di biofisica (Ibf) del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) di Palermo e il dipartimento di Fisica dell’Università di Palermo.  Gli scienziati hanno voluto verificare gli effetti della somministrazione di insulina su un modello di cellule neuronali, trattate in precedenza con dei “piccoli aggregati” di proteina beta-amiloide, coinvolta come risaputo nello sviluppo dell’Alzheimer.

Spiega la dott. Daniela Giacomazza del Cnr: "uno studio statunitense aveva evidenziato come pazienti con valori elevati di glicemia avessero una probabilità dell’85% di ammalarsi di Alzheimer, allungando così l’elenco delle patologie associate al diabete, che già include disturbi cardiaci, renali, visivi e neurologici. In seguito è stato osservato che i pazienti affetti da Alzheimer presentavano una riduzione di insulina (ormone responsabile dell’assorbimento del glucosio a livello cellulare) tanto che si sarebbe potuto definire tale morbo un “diabete di tipo III”.

E’ stato questo a far scattare la curiosità degli scienziati. Lo studio, non solo ha mostrato una correlazione tra le due malattie, ma ha portato all’osservazione di un particolare fenomeno in seguito alla somministrazione dell’insulina nelle cellule in vitro. Spiegano gli scienziati del Cnr per voce della dott. Marta Di Carlo:


"Dopo essersi legata al suo recettore sulla membrana dei neuroni, l’insulina provoca una serie di reazioni biochimiche che hanno come molecola chiave Akt.[…]In pratica, dopo il trattamento con l’insulina, i neuroni danneggiati sono capaci di riprendere la loro morfologia e ripristinare le funzioni compromesse."


FONTE: Medicinalive.com
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