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AFORISMA DEL GIORNO

27 aprile, 2018

La tecnica CancerSEEK, biopsia liquida per migliorare la forza diagnostica in campo oncologico

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Da molto tempo si cerca di ottimizzare la diagnosi del tumore attraverso metodi poco invasivi ed il più efficaci possibile. Gli ultimi anni hanno visto una serie di test sperimentali chiamati biopsie liquide che promettono di rilevare e localizzare i tumori da un semplice prelievo di sangue. Molti di questi test sono pensati per rilevare un singolo tipo di cancro, individuando specifiche sequenze di DNA che circolano libere nel sangue. Le cellule tumorali possono infatti rilasciare, dopo la loro lisi o durante il loro ciclo vitale, vescicole contenenti DNA che può essere rivelato ed utilizzato come marker. Da qui nasce CancerSEEK.

Molti gruppi nel mondo accademico e in quello industriale si sono concentrati sull’uso di biopsie liquide. I vantaggi sono molti, sono molto meno costose di pratiche più invasive come le biopsie e molto meno traumatiche anche per il paziente. Tuttavia tali prelievi venivano usati per monitorare la progressione del cancro e per guidare i medici nella formulazione di un piano di trattamento.

Ma l’oncologo Nickolas Papadopoulos del Johns Hopkins Kimmel Cancer Center di Baltimora, nel Maryland, e i suoi colleghi volevano sviluppare un test in grado di rilevare i tumori in una fase precoce, quando sono più facili da trattare.

Un test con queste caratteristiche è molto difficile da mettere a punto. Tumori di piccole dimensioni non liberano tanto DNA nel sangue, come invece fanno i tumori più grandi. E i falsi positivi sono un problema per i test che devono essere somministrati a grandi popolazioni di individui sani: un risultato sbagliato può causare alle persone stress eccessivo e portare a trattamenti non necessari e potenzialmente dannosi.

Per aumentarne la sensibilità, i ricercatori, hanno pensato quindi ad un esame composto sia da una analisi genica del DNA libero che da una analisi proteica. Il test che hanno sviluppato – chiamato CancerSEEK – esamina i livelli di otto proteine e la presenza di mutazioni in 16 geni.

Il gruppo ha testato la biopsia liquida su persone già diagnosticate con una di otto forme di cancro: ovarico, fegato, stomaco, pancreas, esofageo, colon-retto, polmone o seno. E hanno escluso le persone il cui cancro si era diffuso ad altre parti del corpo, in modo che potessero concentrarsi sulle prime fasi della malattia.

L’efficacia di CancerSEEK variava ampiamente a seconda del tumore: ha rilevato il 98 per cento dei tumori ovarici, ma solo il 33 per cento dei casi di cancro al seno. È stato in grado di individuare l’organo in cui la malattia aveva messo radici in circa il 63 per cento dei pazienti. Ma il test ha ottenuto risultati migliori sui tumori in stadio avanzato rispetto a quelli precoci, trovando il 78 per cento della malattia in stadio III rispetto al 43 per cento dei tumori in stadio I.

Risultati ottimi afferma Rosenfeld direttore scientifico dell’azienda Inivata di Cambridge, ma aggiunge la sua preoccupazione sulla possibile presenza di tumori non diagnosticabili attraverso CancerSEEK. Un’altra preoccupazione è che il tasso di falsi positivi possa essere più alto nella popolazione generale, dice Catherine Alix-Panabières, ricercatrice oncologa dell’Università di Montpellier, in Francia. Alcune persone apparentemente sane potrebbero covare malattie infiammatorie che alterano i livelli delle proteine rilevate dal test, afferma.

Potrebbero volerci anni per affrontare questi problemi. Ma i ricercatori hanno già iniziato uno studio che testerà CancerSEEK in almeno 10.000 individui sani. Nel frattempo, ci si aspetta di vedere altri gruppi di ricerca perfezionare le proprie biopsie liquide combinando il sequenziamento del DNA con altri esami del sangue, afferma Alberto Bardelli, ricercatore oncologo presso l’Istituto per la ricerca e la cura del cancro di Candiolo di Torino.

FONTE: Close Up Engineering
AUTORE: Marco Franzon
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26 aprile, 2018

Trento, forte carenza di medici di emergenza, "ci rubiamo i medici fra Regioni" ...

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«Se invitare i medici a partecipare ai concorsi è un reato, io mi autodenuncio, perché faccio questo ogni giorno. Una realtà piccola come la nostra ha più difficoltà di Milano, Brescia, Verona a trovare professionisti. Molti vanno in pensione e sono pochi quelli sul mercato». Paolo Bordon, direttore dell’Azienda sanitaria trentina, presenta un quadro allarmante, che va oltre il «locale».

«C’è una grave carenza di medici, da noi come in molte aziende italiane. E quando non si riesce a fare arrivare a Trento ed a Rovereto medici con un contratto a tempo indeterminato vuol dire che siamo in forte difficoltà. Lo scorso anno abbiamo addirittura acquistato spazi pubblicitari, dunque pagando, sui giornali anche all’estero per cercare pediatri e ginecologici per l’ospedale di Cavalese».

Questa è la sua risposta al consigliere provinciale di M5S Filippo Degasperi in merito all’accusa del concorso «pilotato» per l’assunzione a tempo determinato di un medico al pronto soccorso di Trento (vedi articolo in basso). «Non conosco Degasperi e non ce l’ho né con lui né con la forza di cui fa parte - aggiunge Bordon - Al contrario, noi abbiamo bisogno di lui e di tutte le forze politiche perché ci aiutino in una situazione di difficoltà nazionale nel reperire professionisti».

Nel caso del concorso finito nel mirino di Degasperi, Bordon evidenzia che il medico che ha superato la selezione (il consigliere pentastellato lo aveva indicato come vincitore con una settimana di anticipo) «non è mai venuto a lavorare in azienda sanitaria».

«Era già assunto a tempo indeterminato in un ospedale importante del Veneto, era l’unico a possedere due specialità, mentre gli altri candidati erano neo specializzandi: forse non ci voleva molto a capire chi avrebbe vinto la selezione, che avveniva per titoli - spiega il dirigente - Il Veneto ci ringrazia: lo stesso medico non si è presentato neppure al concorso per il tempo indeterminato al pronto soccorso di Trento e Rovereto, con la prima prova che si è tenuta nei giorni scorsi: su dieci domande si sono presentati in sei. Altro che favorire i medici nei concorsi: non troviamo neppure i candidati. Spendo molto del mio tempo a girare, a cercare di sensibilizzare le persone a partecipare alle nostre selezioni. Siamo arrivati al punto che io ed i miei colleghi dirigenti sanitari di tutta Italia ci stiamo “rubando” i medici».

FONTE: Adige News
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25 aprile, 2018

Progetto "mEryLo": usare gli eritrociti come alleati contro la leucemia

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Il “nemico” sono i tumori. Gli alleati i globuli rossi, che “mimetizzano” e trasportano un cocktail di farmaci specifico per ogni paziente per prolungarne la presenza all’interno del corpo, ridurre la frequenza della terapia e ridurre gli effetti secondari dovuti a possibili sovradosaggi. L'idea è di un team italiano tutto femminile (Giustina Casagrande, Monica Piergiovanni ed Elena Bianchi) e si chiama mEryLo'.

Il progetto (uno dei due italiani assieme a Helperbit) è tra i 19 finalisti che si giocheranno la Global Social Venture Competition, il concorso mondiale riservato ai progetti di impresa a impatto sociale e ambientale. “Tutto è nato una decina di anni fa presso il Laboratorio LaBS del Politecnico di Milano - spiega Giustina Casagrande - anche se l’idea di mettere a punto un dispositivo è stata sviluppata negli ultimi anni”. Il nome è un acronimo che spiega ciò che fa il dispositivo: mEryLo’ sta per micro Erytrocyte Loader, ovvero “dispositivo microfluidico di caricamento degli eritrociti”. Con cartucce monouso poco invasive e che limitano il contatto tra il sangue e l’ambiente esterno, potenziale causa di contaminazione e infezioni. Al momento esiste un prototipo da laboratorio che permette di trattare piccole quantità di sangue. Il prossimo passo sarà lo sviluppo del dispositivo per l’applicazione sui pazienti.

Anche se il sistema potrebbe essere usato in diversi contesti clinici, le tre ricercatrici hanno scelto di concentrarsi inizialmente sulla leucemia. Soprattutto per due motivi: “La prima – spiega Casagrande - sta nel fatto che per la cure attuali si utilizzano farmaci con molti effetti collaterali, che noi miriamo a ridurre mimetizzando parte del farmaco nei globuli rossi. La seconda è legata al fatto che in altri contesti oncologici c'è un nemico ben localizzato da combattere, spesso anche chirurgicamente o con radioterapia mirata, mentre nella leucemia pervade tutto il sistema vascolare, dove sono presenti in grande quantità proprio i globuli rossi in cui il farmaco viene caricato”. Il passo più complicato, come spesso succede, è passare dalla laboratorio all'impresa. “Questa è proprio la grande sfida”, sottolinea Casagrande. Fino ad oggi mEryLo’ è stato un progetto di ricerca, ora la nostra startup sta cercando la sua collocazione sul mercato. Dopo un primo piccolo seed, stiamo svolgendo attività di fund raising per supportare le diverse fasi di validazione, necessarie per portare il progetto più vicino all’applicazione clinica”.


FONTE: Agi Salute
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24 aprile, 2018

OMS lancia nuovo allarme per le resistenze batteriche, "le nostre armi stanno finendo"

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Troppi antibiotici, prescritti male, e una massiccia, e forzata, "selezione naturale" dalla quale emergono creature pericolosissime: i batteri più forti, adattati al nuovo ambiente, praticamente invincibili. È il fenomeno drammatico dell'antibioticoresistenza, su cui è tornata a puntare il dito l'Organizzazione mondiale della sanità. Ma quali sono questi batteri, e come fare per contrastarli? In Italia il "pericolo pubblico numero uno" è lo Klebsiella pneumoniae: e lui il principale responsabile delle infezioni nelle strutture sanitarie. Il dato emerge dal primo Report sulle batteriemie da enterobatteri resistenti ai carbapenemi coordinato l'anno scorso dall'Istituto Superiore di Sanità che ha elaborato per la prima volta in un report i risultati del sistema di sorveglianza istituito dal Ministero della Salute.

Dai dati emergono circa 2000 casi di batteriemie l'anno nel nostro Paese, maggiormente in pazienti di età compresa tra 65 e 80 anni, ricoverati in unità di terapia intensiva ma anche in reparti medici e chirurgici. Lavarsi le mani è il principale strumento che abbiamo per prevenire le infezioni nelle strutture sanitarie. Per questo motivo l'OMS promuove ogni anno la Giornata mondiale dell'igiene delle mani.

Lo slogan dell'anno scorso, "Combattere la resistenza agli antibiotici è nelle tue mani", voleva porre l'accento proprio sulla prevenzione delle infezioni antibiotico-resistenti, che rappresentano una delle principali minacce alla salute. "Grazie a questo sistema di sorveglianza abbiamo una dimensione molto più vicina alla realtà relativamente al fenomeno della diffusione di questo patogeno nelle corsie ospedaliere - dichiara Walter Ricciardi, presidente dell'Istituto Superiore di Sanità - Disponiamo oggi di un'evidenza che ci impone di farne una priorità di salute pubblica e di mettere in campo tutte le risorse disponibili, economiche e non, in tutti gli ospedali per contrastare questo fenomeno: dall'osservazione puntuale del lavaggio delle mani fino all'istituzione di personale sanitario dedicato al controllo delle infezioni e di figure professionali per guidare un appropriato utilizzo di queste molecole. Essenziale resta il contributo delle Regioni - afferma il Presidente - nella segnalazione puntuale del fenomeno per avere un quadro sempre più preciso che ci consenta di fare interventi mirati e comprenderne l'efficacia".

Soprattutto per alcuni tipi di batteri, come gli Enterobatteri resistenti ai carbapenemi, antibiotici di ultima risorsa, contro i quali gli antibiotici efficaci sono limitatissimi o mancano del tutto, ci dobbiamo difendere con le poche armi che abbiamo a disposizione, appunto l'igiene delle mani. Tra le infezioni da batteri resistenti, le batteriemie sono sicuramente le più gravi e le più letali. Le batteriemie sono dovute nella gran parte dei casi a Klebsiella pneumoniae che produce un enzima chiamato KPC. L'ampiezza del fenomeno è veramente drammatica, se si considera che i casi di batteriemia sono probabilmente sottonotificati, almeno da alcune regioni ed aree geografiche, e che la mortalità associata a queste infezioni è almeno del 30%. Il batterio Klebsiella pneumoniae, è un microrganismo che oltre a batteriemie causa anche infezioni urinarie e polmoniti. La resistenza ai carbapenemi è spesso associata a resistenza ad altre classi di antibiotici, compresa la colistina, un vecchio antibiotico rispolverato come rimedio estremo contro questi batteri resistenti a quasi tutti gli antibiotici.

Per questo l'OMS ha classificato questi batteri tra quelli critici ad altissima priorità per lo sviluppo di nuovi antibiotici. L'Italia è un paese che si può considerare "iperendemico": per incidenza di queste infezioni rispetto alle giornate di degenza l'Italia è al secondo posto in Europa, dopo la Grecia secondo i dati dello studio EuSCAPE (recentemente pubblicato su Lancet Infectious Diseases) che traccia l'epidemiologia pan-europea di queste infezioni e al quale l'Italia ha partecipato col coordinamento dell'ISS.

FONTE: Agi Salute
AUTORE: Paolo Giorgi
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23 aprile, 2018

Sicilia, "esplode" la diffusione del diabete: nell'ultimo decennio oltre 300 mila malati (il 6% della popolazione)

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Nell’isola sono 304.456 le persone malate di diabete. Una fotografia davvero preoccupante quella che viene fuori dall’ultimo rapporto di “ITALIAN DIABETES & OBESITY BAROMETER REPORT”, cioè un rapporto che affronta la patologia diabetica attraverso un confronto continuo sulle tematiche cliniche, sociali, economiche e politico-sanitarie. I dati che emergono dallo studio confermano che la preoccupazione, da tempo vissuta, dalla Federazione Diabete Sicilia è fondata. Chiaramente, in una regione come la Sicilia dove le condizioni socio economiche e le maggiori difficoltà di accesso alle cure determinano una percentuale più alta di persone che ne sono affette.

In Sicilia iI 6,0% della popolazione si dichiara diabetico e nella nostra regione c’è una prevalenza dell’obesità infantile e del diabete superiori rispetto alla media nazionale. Nel 2000 era l’unica regione del Sud con una prevalenza grezza al di sotto della media il che indica una velocità di crescita della patologia nel successivo decennio particolarmente marcata. Il tasso standardizzato di mortalità per diabete ridotto per il sesso femminile, ma non per quello maschile, collocandosi al primo posto, seguito dalla Campania.

Nel 2013 il governo ha approvato un Piano Nazionale sulla malattia diabete (PND) che definisce obiettivi, strategie, linee guida e priorità. Il Piano Nazionale si concentra sulla prevenzione, la diagnosi precoce, la patologia e la gestione delle complicanze, e il miglioramento dei risultati, attraverso l’adozione di programmi di gestione integrata delle malattie a livello regionale. In SICILIA il Piano Nazionale sulla malattia diabete è stato implementato con Decreto dell’assessorato della Salute n°1112 del 10 giugno 2013. «Tuttavia, riscontriamo – sottolinea il presidente della FDS, Giacomo Trapani – una insufficiente attenzione da parte delle Istituzioni alla problematica dell’universo diabete. Mi spiego meglio. Vorremmo avere più opportunità di confronto non solo con i Direttori Generali, attualmente Commissari, delle Asp per programmare insieme attività di prevenzione e informazione per raggiungere quante più persone possibili. In particolare, creare occasioni di incontro con le nuove generazioni, quindi collaborare anche con la Scuola. Ed ancora, avere la possibilità di momenti collettivi con i cittadini per fornire supporto e non fare sentire chi diabetico solo. Infine, ma non per importanza, vorremmo, visto che abbiamo una Federazione che registra al suo interno l’insieme di 25 Associazioni di persone con diabete, sparse per tutta la Regione, incontrare l’Assessorato alla Salute. Il diabete Mellito in tutte le sue forme è una patologia che non è impattante dal punto di vista visivo, ma è purtroppo una patologia subdola che silenziosamente se, non è ben compensata può causare danni irreversibili. Vorremo più attenzione.»

Il ritratto che emerge, inoltre, dal rapporto “Osservasalute 2017” presentato giovedì 19 aprile a Roma i cui dati fanno dire al presidente dell’Istituto superiore di sanità, Walter Ricciardi, che «è evidente il fallimento del Servizio sanitario nazionale, anche nella sua ultima versione federalista, nel ridurre le differenze di spesa e della performance tra le Regioni». Il dato più lampante che emerge dal Rapporto, frutto del lavoro di 197 ricercatori distribuiti su tutto il territorio italiano che operano presso Università e numerose istituzioni pubbliche nazionali, regionali e aziendali, è, ormai, la conferma di quel che si conosce da anni: l’Italia, dal punto di vista sanitario è un patchwork fatto da territorio con le più disparate qualità dell’assistenza ed esiti di salute. Differenze che negli ultimi dieci anni le strategie per la copertura dei disavanzi pregressi non hanno fatto altro che acuire.

«Rimane aperto e sempre più urgente il dibattito sul segno di tali differenze. Si tratta di differenze inique perché non naturali, ma frutto di scelte politiche e gestionali», dice ancora Ricciardi. «È auspicabile che si intervenga al più presto partendo da un riequilibrio del riparto del Fondo sanitario nazionale, non basato sui bisogni teorici desumibili solo dalla struttura demografica delle Regioni, ma sui reali bisogni di salute, così come è urgente un recupero di qualità gestionale e operativa del sistema, troppo deficitarie nelle regioni del Mezzogiorno».

Inoltre, è opportuno evidenziare le specifiche che riguardano il Diabete come spunto di riflessione e innovative soluzioni. La diagnosi tempestiva e il costante controllo delle persone con diabete, grazie a terapie di qualità, riducono del 10- 25% il rischio di complicanze minori – danni agli occhi e ai reni – e del 15-55% il rischio di complicanze più gravi – insufficienza renale cronica, patologia coronarica, perdita della vista. Infatti, si stima che tali azioni siano in grado di ritardare di oltre 5 anni l’insorgere di complicanze e di prolungare la vita delle persone affette da diabete in media di 3 anni. Nel lungo termine, un simile miglioramento del quadro terapeutico consentirà una riduzione media dei costi di oltre il 30%.

Il diabete ha una rilevanza sociale oltre che sanitaria e questo è stato sancito, in Italia prima ancora che egli altri Paesi del mondo, da una legge (n. 115 del 1987) che è diventata punto di riferimento fondamentale e ha largamente ispirato il Piano Nazionale sulla Malattia Diabetica del Ministero della Salute. 



FONTE: Giornale Ibleo
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22 aprile, 2018

Nei topi di New York nuovi enterobatteri resistenti agli antibiotici

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Uomini e topi: un’accoppiata antica quanto la civiltà. Dove vive l’uomo c’è anche il topo che trasmette malattie e contribuisce allo sviluppo dei super-batteri. La tesi trova conferma in due studi pubblicati sulla rivista mBio. I ricercatori della Columbia University e dell’US Centers for Disease Control hanno analizzato campioni di fegato, di reni e di feci prelevati da oltre 400 topi che vivono in cinque edifici residenziali e due edifici commerciali in diverse zone di New York: Laconia (Brooklyn), Allerton (Bronx), Upper West Side e Chelsea (Manhattan) e Fresh Meadows (Queens).

Dall’analisi gli studiosi hanno riscontrato agenti patogeni in grado di farci ammalare, e alcuni dei microbi in grado di rendere i batteri resistenti a determinati antibiotici. Più nello specifico, i topi sono portatori di diverse malattie infettive per l’uomo, quali Salmonella, Escherichia coli, Shigella, Klebsiella pneumoniae, Clostridium perfringens, Leptospira. Ma a preoccupare di più i ricercatori è la presenza nei campioni prelevati dai topi di 22 batteri in grado di trasformare infezioni assolutamente curabili in superbatteri resistenti agli antibiotici.

Nonostante i ricercatori abbiano scoperto virus che sembrano essere stati trasmessi da maiali o cani ai topi, e che potenzialmente mutare per infettare anche gli umani, non ci sono prove che i roditori stiano facendo ammalare i newyorkesi. Di certo, afferma Quartz, è meglio tenerli d’occhio. E non solo quelli di New York: se i roditori della Grande Mela sono portatori di agenti patogeni e batteri, è molto probabile che anche quelli delle città di tutto il mondo lo siano.

FONTE: Agi Salute
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21 aprile, 2018

Diabete di tipo 1 e molecola BL001, prospettive (ancora lontane) di terapie di rigenerazione delle cellule beta

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In uno studio pubblicato su Nature Communications il gruppo di studio spagnolo del Centro andaluz de Biologia Molecular y Medicina Regerativa (Cabimer) ha sperimentato sui topi una molecola (già brevettata) che riesce a combinare due effetti: riduce l'attacco che il sistema immunitario dei malati scaglia contro il pancreas distruggendo le cellule che producono insulina e reintegra la popolazione di beta-cellule distrutte. "Per curare il diabete devi agire su entrambi gli aspetti: creare cellule che sostituiscano quelle che non funzionano e fermare la causa", spiega Bernat Soria, direttore del Dipartimento di rigenerazione e terapie avanzate di Cabimer e uno degli autori dello studio. Cosa che finora le terapie disponibili non erano state in grado di fare, riuscendo infatti ad agire soltanto su uno dei due problemi (immunosoppressione oppure stimolazione della rigenerazione delle betacellule).

I ricercatori hanno condotto delle analisi su topi e su cellule umane coltivate in vitro per testare l'azione della molecola in questione, la BL001: "Questa molecola è in grado di legarsi a un recettore molecolare - il Liver receptor homolog-1, Lrh1, (ndr) - situato sulla superficie del nucleo di alcune cellule del sistema immunitario e sulle cellule del pancreas", spiega Nadia Cobo-Vuilleumier, prima autrice dello studio.

Nei topi, la somministrazione a lungo termine di BL001 impedisce lo sviluppo del diabete attraverso il mantenimento combinato di cellule beta funzionanti e il rilascio di fattori anti-infiammatori. E nelle cellule umane - al momento lo studio ha riguardato il diabete di tipo 2 - la molecola agirebbe proteggendo le betacellule pancreatiche dalla morte cellulare (apoptosi) e migliorando la secrezione insulinica.

Ciò che resta da capire è come il legame tra il recettore e la molecola BL001 possa indurre la rigenerazione delle betacellule. Gli esperti dello studio hanno provato a spiegare questa evidenza: il "farmaco" agirebbe stimolando la trasformazione delle cellule alfa - un altro tipo di cellule presenti nel pancreas coinvolte nella produzione del glucagone, l'ormone che svolge la funzione opposta all'insulina -  in beta-cellule. Secondo gli esperti le cellule alfa, anch'esse caratterizzate dalla presenza del recettore al quale la molecola può legarsi, potrebbero andare incontro a un processo chiamato transdifferenziazione - un'ipotesi in realtà ancora da verificare. Se così fosse, tale trasformazione consentirebbe di rigenerare la popolazione di cellule beta da un campione inesistente o gravemente danneggiato.

Il composto brevettato, che ha avuto successo nella prevenzione e nel trattamento del diabete nei topi e nelle colture di tessuto pancreatico umano, ha ancora molta strada da fare prima di arrivare sul mercato - si devono ad esempio analizzare soglie di efficacia e tossicità al fine di renderlo sicuro e poi c'è bisogno di fondi perché "il costo previsto per lo sviluppo del farmaco si aggira attorno a 20 milioni di euro", conclude Benoit Gauthier, co-autore dello studio.


FONTE: Repubblica.it
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20 aprile, 2018

Epatite C, molti paesi stanno eradicando l'infezione (ma non l'Italia) ...

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Doccia fredda da una nuova ricerca presentata in questi giorni al congresso europeo sulle malattie del fegato, in corso a Parigi. Nonostante l'accesso aperto a tutti i pazienti con virus dell'epatite C, anche i meno gravi, e nonostante l'utilizzo di farmaci che agiscono e curano in sole 8 settimane, anziché dodici, con una efficacia altissima, l'Italia non sarebbe sul binario giusto per eradicare la malattia, obiettivo che l'Organizzazione mondiale della Sanità ha posto per il 2030. Siamo solo in una fase definita di "progresso". Pochi screening, e dunque diagnosi, e pochi pazienti trattati. Per non parlare poi delle cosiddette popolazioni a rischio, i detenuti, i tossicodipendenti che usano droghe iniettive, i lavoratori del sesso e gli Msm (gli uomini che fanno sesso con gli uomini).

Ma i nostri infettivologi non ci stanno. "Non mi risultano registri di malati HCV in Europa - premette Carlo Federico Perno, professore di Microbiologia e Virologia all'università di Milano - mentre in Italia esiste un registro AIFA dei trattamenti. E lunedì scorso eravamo a 127.000 trattati su un numero complessivo che varia da 350 a 450 mila infezioni. Stiamo trattanto circa 45.000 pazienti all'anno, quindi siamo ben oltre il 10%. Abbiamo avuto fondi dedicati, abbiamo liberato l'accesso, direi che in Europa - e forse nel mondo - l'Italia è forse il Paese che ha fatto lo sforzo maggiore. Da scienziato vorrei sapere piuttosto da dove arrivano i numeri presentati a Parigi".

Numeri che assegnano all'Italia quasi ottocentomila infezioni. Dato ipotizzato molti anni fa, in base ad estrapolazioni statistiche rivelatisi poi sbagliate. Tornando all'eradicazione, per essere sul binario giusto un Paese deve trattare ogni anno almeno il 7% degli infetti, e non avere restrizioni nell'accesso. Secondo i dati presentati a Parigi l'Italia sarebbe ferma al 4%. Davanti a noi sei paesi europei: Francia, con l'8%, Georgia (13%), Islanda (54%, ma i numeri dei trattati sono complessivamente molto bassi, qualche centinaio), Olanda (12%), Spagna con il 10% e Svizzera. Lo studio americano presentato a Parigi - da Homie Razavi e Sarah Robbins del Center for Disease Analysis Foundation di Lafayette - disegna comunque una Europa a più velocità. Da una parte paesi con numeri alti di malati dove è stato trattato solo l'1% degli infetti, come Turchia, Bulgaria, Croazia, Grecia, Russia e Slovacchia, dall'altra Paesi dove i numeri continuano a crescere, Ma anche quelli temporaneamente retrocessi, come la Germania, che da un anno all'altro non è riuscita a curare la percentuale richiesta di malati. E questo perché - sottolinea Razavi - lo screening non è diffuso e sono pochi i pazienti con infezione HCV ad essere identificati.

"Molti paesi europei sono sul binario giusto - precisa Razavi - ma bisogna organizzare test di routine in carcere, servizi dedicati per i tossicodipendenti e i lavoratori del sesso. E soprattutto serve più consapevolezza tra i medici, anche quelli di famiglia, che dovrebbero proporre il test a chi è considerato a rischio infezione". Alla fine dello scorso anno molti paesi europei hanno promesso di implementare i programmi per l'elimizazione dell'epatite C prima del 2030, compresi Gran Bretagna, Irlanda, Norvegia e Svezia. Nel 2017, per esempio, la Gran Bretagna ha trattato il 6% degli infetti (circa 10mila sui 163.500 stimati), ma ha anticipato di cinque anni l'obiettivo eradicazione, fissandolo al 2025. Spagna e Svizzera hanno eliminato le restrizioni all'accesso della terapia, un dato particolarmente importante visto che la Spagna, nella Eurozone, ha numeri molto alti di infezioni.
L'Italia oggi punta a raggiungere chi ha l'infezione HCV ma non sa di averla. Soprattutto over 65, infettatisi anni fa che sono stati convinti, qualche volta anche dal medico di base, che la terapia per eradicare il virus non fosse necessaria. Ma l'infezione HCV è invece subdola, oltre che sistemica: e il virus continua a lavorare e a replicarsi danneggiando il fegato. Ma non solo quello. HCV può danneggiare reni e pancreas e provoca una infiammazione cronica. Per questo l'idea è di far fare il test a tutti coloro che hanno patologie degenerative croniche: i diabetici, chi ha danno renale, gli ipertesi, i cardiopatici. Potrebbero essere tutte patologie legate ad HCV.

FONTE: Repubblica.it
AUTRICE: Elvira Naselli
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19 aprile, 2018

In aumento la prevalenza di tumori urologici negli anziani, previsti oltre 30 mila nuovi casi ogni anno

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Ogni anno a 38mila italiani sopra i 70 anni d’età viene diagnosticato un tumore urologico. Il più frequente è quello alla prostata, che ha però un minore impatto clinico perché in una percentuale non trascurabile dei casi è in forma latente asintomatica, specie negli ultra 80enni.Più rilevanti sono invece il carcinoma del rene e quello della vescica, i cui casi negli ultimi anni sono aumentati, in particolare nelle persone d’età avanzata. Per curare al meglio questi pazienti, che non di rado soffrono di altre patologie legate all’invecchiamento, è necessario intensificare la collaborazione tra urologi, oncologi e geriatri che, insieme ad altri specialisti, devono elaborare nuovi percorsi di assistenza e cura a misura del malato anziano. Proprio la multidisciplinarietà al servizio della terza età è uno dei temi al centro del Congresso Nazionale della Società Italiana di Urologia Oncologica (SIUrO), che si apre oggi a Milano e riunisce oltre 600 esperti da tutta la penisola.

«Le neoplasie uro-genitali rappresentano un quinto di tutte le diagnosi di cancro registrate nel nostro Paese - dice Riccardo Valdagni, Presidente Nazionale della SIUrO -. Sono patologie tipiche degli over 70 che spesso e volentieri soffrono anche di ulteriori gravi problemi di salute come diabete, ipertensione o insufficienza renale. Per questi pazienti è ancora più importante e fondamentale essere assistiti da un team multidisciplinare. Attraverso il “lavoro di squadra” è possibile, infatti, favorire l’appropriatezza diagnostica e terapeutica, ridurre gli sprechi legati a cure ed esami superflui, garantire il tempestivo accesso a programmi di riabilitazione e supporto. La multidisciplinarietà deve quindi essere considerata non più un’opzione ma, piuttosto, come una modalità di gestione necessaria. I vari specialisti devono imparare a cooperare insieme per acquisire gli uni parte degli strumenti degli altri. A questo tema, ormai imprescindibile, abbiamo dedicato il nostro appuntamento nazionale più importante».Il numero di casi di tumore del rene è aumentato del 7% nell’ultimo quinquennio. E per quello della vescica per il 2020 sono previste oltre 30.300 nuove diagnosi l’anno contro le attuali 27mila.

«Negli anziani il rischio di ammalarsi di cancro è di 40 volte più alto rispetto agli under 40 – aggiunge Alberto Lapini, presidente eletto della SIUrO -. Secondo le ultime previsioni demografiche già nel 2025 un quarto della popolazione italiana avrà più 65 anni. Vanno quindi presi dei provvedimenti a livello politico e sanitario per evitare un vero e proprio boom di patologie oncologiche nei prossimi anni. Per quanto riguarda i tumori del tratto urinario esiste un problema oggettivo nell’individuarli ai primi stadi. Il cancro del rene o della vescica, per esempio, non si manifestano attraverso sintomi specifici e inoltre non abbiamo a disposizione programmi di screening efficaci. Esiste poi l'annosa e irrisolta questione dell’esame del PSA per il tumore della prostata: il test non può essere utilizzato in maniera indiscriminata o diventare un esame di massa. Va limitato solo alle persone considerate a rischio, correttamente informate sul significato del PSA e sull’iter diagnostico che un PSA non “normale” comporta. Altrimenti otterremmo come unico risultato un aumento di trattamenti eccessivi o inutili con conseguenze non indifferenti sulla qualità della vita dei pazienti».

«Una possibile soluzione è favorire il più possibile gli stili di vita sani - sottolinea Giario Conti, Segretario Nazionale della SIUrO -. Comportamenti pericolosi come il tabagismo o i chili di troppo sono ancora eccessivamente diffusi tra gli over 65. In particolare il 57% degli anziani italiani risulta in eccesso di peso e questo determina un aumento del rischio soprattutto del tumore del rene. Dieta corretta e attività fisica vanno quindi promossi tra tutta la popolazione senza distinzione d’età». Ampio spazio, durante il congresso SIUrO di Milano, viene dedicato al tema delle nuove terapie. «Negli ultimi anni è cambiata la strategia contro queste patologie - prosegue Sergio Bracarda, Vice Presidente SIUrO -. Emblematico è il caso del cancro della prostata che è il più frequente tra gli italiani: un caso su tre viene considerato come non aggressivo e quindi è trattato con la sorveglianza attiva, che consiste in controlli periodici da svolgere per tenere la malattia sotto osservazione, senza intervenire. Grosse novità sono state introdotte quando la malattia arriva alla fase metastatica. Innovativi farmaci chemioterapici o ormonali sono in grado di allungare la significativamente la sopravvivenza. Per quanto riguarda invece il tumore del rene e vescica, l’immunoterapia si sta dimostrando sempre più efficace e ben tollerata da parte di pazienti che storicamente hanno avuto limitate opzioni di cura. Per le tre neoplasie sono stati ottenuti buoni risultati, sempre in termini di sopravvivenza, anche con farmaci ormonoterapici e chemioterapia nella patologia prostatica: da 3 a 16 mesi in più. Nella patologia renale e vescicale invece sono stati riscontrati progressi con l’utilizzo di farmaci immunoterapici sia da soli che in combinazione. Grazie a tutte queste innovazioni terapeutiche in Italia l’80% dei pazienti colpiti da una neoplasia genito-urinaria riesce a sconfiggere la malattia».

FONTE: Corriere.it
AUTRICE: Vera Martinella
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Italia, aumenta la spesa sanitaria e cala la spesa per il personale, peggiora efficienza cure al Sud

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Sale la spesa sanitaria pubblica pro capite in Italia, anche se resta più bassa che in altri Paesi. Lo afferma il Rapporto Osservasalute precisando che su base nazionale, la spesa sanitaria pubblica pro capite è aumentata dello 0,38% tra il 2015 e il 2016, attestandosi a 1.845 euro. Si evidenzia inoltre che la spesa sanitaria privata raggiunge, nel 2015, la quota di 588,10 euro con un trend crescente dal 2002 a un tasso annuo medio dell'1,8%.

Tutte le Regioni registrano un tasso medio di crescita degli esborsi che oscilla dallo 0,6% delle Lombardia al 3,7% della Basilicata. Nel 2015, in valori assoluti, la spesa privata pro capite più alta si registra in Valle d'Aosta con 948 euro, mentre la più bassa è in Sicilia con 414 euro. Allo stato attuale, in Italia la spesa sanitaria pro capite è ancora composta per circa i tre quarti dalla spesa pubblica, collocando il nostro Paese in linea con gli altri Paesi dell'Ue che hanno adottato un sistema di finanziamento prettamente a carico dello Stato.

Secondo gli esperti, nel nostro Paese si muore meno per tumori e malattie croniche ma solo dove la prevenzione funziona, ovvero principalmente nelle Regioni settentrionali. Al Sud, invece, la situazione è decisamente peggiore: il tasso di mortalità per queste malattie è infatti maggiore di una percentuale che va dal 5 al 28% e la Campania è la Regione con il dato più allarmante (+28% di mortalità rispetto alla media nazionale del 2,3%). Il report prende in esame la cosiddetta mortalità precoce, dai 30 ai 69 anni, per varie patologie come tumori, diabete e malattie croniche e cardiovascolari.

Sempre nel Mezzogiorno una persona su cinque dichiara di non aver soldi per pagarsi le cure, quattro volte la percentuale osservata nelle Regioni settentrionali. La Campania e ancor di più la Calabria sono le Regioni che nel quadro complessivo mostrano il profilo peggiore. Si evidenziano dunque, si legge nel documento, "situazioni di buona copertura dei sistemi sanitari nelle regioni del Centro-Nord, mentre per il Meridione appare urgente un forte intervento in grado di evitare discriminazioni sul piano dell'accesso alle cure e dell'efficienza del sistema".

Continua a calare anche la spesa per il personale sanitario. L'incidenza degli investimenti per personale dipendente del Sistema sanitario nazionale sulle uscite totali si è ridotta dell'1,1% tra il 2012 e il 2015, passando dal 32,2% al 31,1% e confermando un trend già osservato a partire dal 2010. Il contenimento della spesa si è registrato, prevalentemente, nelle Regioni sottoposte al Piano di Rientro (Campania, Calabria, Sicilia, Lazio e Puglia), in Lombardia, Liguria e nella Provincia autonoma di Bolzano.

Appare critica anche la situazione dei cittadini anziani non autosufficienti, che nel 2028 ammonteranno alla cifra record di 1,6 milioni, 100mila in più rispetto a oggi. I cittadini over 65 con problemi di autonomia (preparare i pasti, gestire le medicine e le attività domestiche, ecc.) arriveranno invece a 4,7 milioni (700mila in più). Secondo gli esperti si tratta tuttavia di dati sottostimati, destinati probabilmente a divenire ancora più negativi. "Ci troveremo di fronte a seri problemi per garantire un'adeguata assistenza agli anziani - hanno sottolineato gli esperti - in particolare quelli con limitazioni funzionali, perché la rete degli aiuti familiari si va assottigliando a causa della bassissima natalità che affligge il nostro Paese da anni e della precarietà lavorativa che non offre tutele ai familiari".

Più in generale, l'indagine segnala come sia diminuito il numero degli abitanti in Italia, con oltre un italiano su cinque che ha più di 65 anni: attualmente sono 6,6 milioni i 65-74enni (10,9% con un picco del 12,7% in Liguria), 4,8 milioni i 75-84enni e due milioni gli over-84 (con le donne che rappresentano la maggioranza, ovvero il 68%). Continuano invece a calare gli ultracentenari: al gennaio 2017, meno di tre residenti su 10mila hanno 100 anni e oltre e le donne sono le più numerose.

FONTE: Tgcom.it
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09 aprile, 2018

Il morbillo torna a fare paura: 411 casi da inizio anno, a rischio complicanze sono soprattutto gli adulti

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Oltre 400 contagi in due mesi (di cui la metà nella sola Sicilia). Decine di casi medio-gravi. Quattro morti. Il morbillo torna a far paura, e dopo il rallentamento registrato negli ultimi mesi dello scorso anno l'epidemia torna a galoppare, trainata proprio dal caso siciliano. E a fare la parte del leone non sono, come ci si potrebbe attendere, i bambini, che peraltro hanno giovato della legge che reintroduce l'obbligo per dieci vaccinazioni e che, pur tra mille polemiche, ha fatto tornare le coperture (anche se i dati ufficiali sono ancora in elaborazione) a livelli accettabili, sopra il 90%. Ad ammalarsi (e a morire) di più sono gli adulti.

I numeri dell'Istituto Superiore di Sanità parlano chiaro: nei 411 casi rilevati dal primo gennaio al 28 febbraio di quest'anno, l'età media è stata di 25 anni, mentre 92 sono i contagi riferiti a bambini sotto i 5 anni di età, di cui 28 con meno di un anno.

Anche le morti fotografano questa situazione: una grave insufficienza respiratoria legata al morbillo ha ucciso prima una persona di 38 anni, poi una di 41, mentre una polmonite ha stroncato una ragazza di 25 anni a Catania. A fare eccezione il caso di ieri, con la morte di un bimbo di appena dieci mesi sempre a Catania, non vaccinato perchè troppo piccolo, che pure probabilmente era stato contagiato da un adulto.

"In effetti la campagna legata alla legge sui vaccini ha sensibilizzato la popolazione sulla necessità di proteggere i più piccoli - spiega Gianni Rezza, direttore del dipartimento di epidemiologia dell'Istituto Superiore di Sanità - ma forse è arrivato meno un altro concetto, altrettanto importante: anche gli adulti si possono vaccinare gratuitamente, ed è bene che lo facciano soprattutto in casi a rischio, per la presenza di altre patologie o se immunocompressi".

Sono queste categorie ovviamente a rischiare di più le diverse complicanze causate dal morbillo, che non sono poche: degli oltre 400 che si sono ammalati quest'anno, il 42,9% dei casi ha riportato almeno una complicanza. Si va dalla diarrea, riportata in 73 casi (17,8%), alla polmonite (43 casi), fino all'insufficienza respiratoria (18 casi, tra cui come detto quelli fatali), la stomatite (90 casi) e addirittura l'epatite (34 casi).

Il morbillo insomma, specie per chi si ammala in età più avanzata, non è uno scherzo. Non a caso quasi un malato su tre, il 60%, è stato ricoverato in ospedale, e un ulteriore 13,9% si è rivolto ad un Pronto Soccorso.

Questa recrudescenza dell'epidemia è fotografata dai numeri: dopo i picchi di marzo, aprile e maggio dello scorso anno (in tre mesi oltre 2.600 casi) i contagi erano scemati: appena 67 a novembre e 114 a dicembre. Poi l'inversione di tendenza, con i numeri che tornano a salire: 188 ammalati a gennaio, 223 a febbraio. Con un inatteso boom in Sicilia, che nel 2017 non era stata tra le regioni più colpite.

In questo scorcio di 2018, invece, solo a Catania si sono registrati oltre 200 casi sui 411 totali. Perchè? "Evidentemente c'è una coda dell'epidemia del 2017 - spiega ancora Rezza - nei mesi scorsi avevamo assistito a un numero di casi superiore in altre regioni, dalla Lombardia al Lazio, ora l'epidemia si è spostata in Sicilia".

È presto per dire se questo fenomeno è legato a una scarsa adesione alle vaccinazioni: "I dati sulle coperture vaccinali saranno pronti nel giro di due settimane - ricorda l'epidemiologo - ma per ora possiamo dire che le coperture sono aumentate dopo la legge Lorenzin, ma l'anno scorso erano molto basse, quindi è prevedibile che ancora qualche focolaio come quello siciliano si sviluppi ancora".

Secondo le autorità sanitarie locali, comunque, il dato riferito alla provincia di Catania non è incoraggiante: l'85% di copertura tra i bambini, dieci punti sotto rispetto alla 'quota di sicurezza dell'Oms per essere certi di tenere sotto controllo la malattia. I medici parlano di "epidemia in atto" a Catania, tanto che il ministero della Salute ha avviato un piano di monitoraggio per capire come evolve la situazione. La paura, insomma, non è finita. Malgrado i risultati superiori alle aspettative della legge Lorenzin: mesi di campagne 'no vax', con manifestazioni di piazza e feroci attacchi sui social, alla fine hanno partorito un topolino, con pochi bambini respinti dagli asili perchè non vaccinati, sporadici casi di intervento dei vigili urbani a sanare le controversie, e nel complesso un'adesione massiccia, pur penalizzata obiettivamente da strutture vaccinali non sempre all'altezza e da diverse carenze nella fornitura dei sieri.

Tanto che i dati ancora parziali parlano di un ottimo 95% di copertura per il vaccino esavalente, un livello che non si vedeva da dieci anni, e un 93% per morbillo-parotite-rosolia, dato che se confermato segnerebbe un record assoluto per l'Italia. "Sicuramente il trend è positivo - spiega Rezza - segno che la legge funziona. L'obiettivo non era colpevolizzare i genitori, ma alzare le coperture vaccinali per la tutela della salute di tutti".

Certo mancano all'appello ancora migliaia di bambini: 30 mila, secondo il past president della società italiana di igiene Carlo Signorelli, mentre arrivano alla spicciolata i primi numeri dalle Regioni: in Veneto ad esempio risultano 8.500 bimbi ancora non in regola (ma essendo una delle dieci regioni con procedura elettronica i tempi si allungano). Nel Lazio la copertura è altissima, oltre il 97%: per la fascia di età 0-3 anni risultano appena 30 casi ancora da regolarizzare. In Toscana ci sono più problemi, con oltre 13 mila bambini non vaccinati. E se Umbria e Puglia sono in linea con i primi dati nazionali, ossia una copertura del 95%, nelle Marche mancano ancora all'appello quasi 14 mila bambini (ma in questo caso il dato è sulla fascia 0-16 anni).

FONTE: Agi.com
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