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AFORISMA DEL GIORNO

19 aprile, 2015

Il Governo all'attacco dei malati: proposta compartecipazione economica sul costo dei farmaci per malattie croniche e rare

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Un sistema più equo. Dove però rischia di saltare parte delle esenzioni per i malati cronici. Va in questa direzione, secondo quanto annunciato finora dal governo, la revisione dei ticket sanitari. Il sottosegretario alla Sanità Vito De Filippo ha di recente spiegato che le novità terranno conto del reddito del nucleo familiare dell’assistito, una conferma di quanto già previsto dal Patto per la salute siglato l’anno scorso dall’esecutivo e dagli enti regionali. I dettagli della riforma, però, non sono ancora del tutto noti. E nonostante gli interventi dovessero essere definiti entro il 30 novembre 2014, ad oggi non è nemmeno certo quando le nuove regole verranno varate. Anzi, nell’intervento in commissione Sanità del Senato in cui a inizio aprile ha messo in dubbio alcune esenzioni per l’acquisto di farmaci De Filippo ha sottolineato che sarà prima “necessaria una modifica legislativa delle norme vigenti”.

Le novità interverranno sull’attuale sistema di compartecipazione dei cittadini alla spesa sanitaria che, al di là delle esenzioni, prevede forme di modulazione del ticket in base al reddito dell’assistito solo in alcune regioni. Un quadro di insieme lo dà la relazione sulla normativa vigente stilata dall’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas), uno degli enti partecipanti al gruppo di lavoro sulla revisione del sistema. Per quanto riguarda la spesa per i medicinali, per i non esenti è previsto nella maggior parte dei casi un ticket per confezione di importo fisso (ad esempio 2 euro in Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria e provincia autonoma di Bolzano), associato a un costo massimo per ricetta. In Valle d’Aosta, Friuli Venezia Giulia, Marche, Sardegna e provincia autonoma di Trento non è previsto alcun ticket, mentre la somma da pagare in farmacia varia a seconda del reddito in Emilia Romagna, Toscana, Umbria e Basilicata. Altrove, come nel Lazio, la quota di compartecipazione dipende anche dal prezzo del farmaco.

Le differenze sono ancora più marcate nelle prestazioni specialistiche ambulatoriali, il cui ticket è dato dalla somma della tariffa adottata in ogni regione per la singola prestazione più una ‘quota ricetta’ introdotta nel 2011, il cosiddetto ‘superticket’. Quest’ultimo non viene richiesto in Valle d’Aosta, Basilicata e Trentino Alto Adige, è fisso a 10 euro in Abruzzo, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lazio, Molise, Puglia, Calabria, Sicilia, Sardegna, mentre altrove varia a seconda del reddito familiare o a seconda del valore della ricetta. Nessuna uniformità esiste nemmeno per le esenzioni. A livello nazionale queste sono garantite per chi è affetto da patologie croniche e rare, oltre che per chi si trova in condizioni socio-economiche svantaggiate, valutate in base a reddito e altri parametri. Tali condizioni per il diritto alle esenzioni subiscono poi nelle singole regioni variazioni a vantaggio dei cittadini: in alcuni casi, per esempio, sono esenti tutti i disoccupati. “È evidente – sottolinea la relazione della Agenas – che la variabilità dei sistemi di compartecipazione al costo può determinare condizioni di non equità tra i cittadini in relazione alla residenza”. La conseguenza di ticket elevati, inoltre, “è la ‘fuga’ dal Servizio Sanitario Nazionale verso strutture sanitarie private, spesso in grado di offrire prestazioni a tariffe concorrenziali rispetto ai ticket”. Anche da qui deriva la necessità di una revisione del sistema.

Secondo le previsioni del Patto per la salute, il nuovo ticket non dovrà rappresentare “una barriera per l’accesso ai servizi ed alle prestazioni”. A parità di gettito rispetto alla situazione attuale, andrà considerata “la condizione reddituale e la composizione del nucleo familiare”. Parole sinora rimaste sulla carta. Ma che il sottosegretario De Filippo ha ribadito, sottolineando che il ticket verrà modulato “in relazione alla condizione reddituale del nucleo familiare fiscale dell’assistito, con esclusione degli esenti per patologia. Per l’assistenza specialistica, inoltre, tale importo rimarrebbe comunque al di sotto del valore tariffario della prestazione, per evitare che gli assistiti possano trovare, in regime privato, le medesime prestazioni ad un prezzo inferiore alla tariffa”.

Per quanto riguarda l’assistenza farmaceutica, invece, “la proposta del gruppo di lavoro prevede l’introduzione di una quota fissa per ciascuna confezione di farmaci, di importo ridotto per gli esenti per patologia e, comunque, graduato in funzione della condizione reddituale dell’assistito”. Cosa che secondo De Filippo parte da un presupposto: alcune regioni hanno già autonomamente introdotto quote di partecipazione per gli affetti da malattie croniche e rare in possesso di esenzione. Ma su questa prospettiva è “profondamente contrario” Tonino Aceti, coordinatore nazionale dell’associazione Tribunale per i diritti del malato – Cittadinanza attiva, che parla di “un attacco a una delle categorie più fragili. Per il resto apriamo a una compartecipazione progressiva in base alla capacità reddituale. Ma tale capacità non deve esse valutata con il nuovo Isee, un modello iniquo come dimostrato dalla bocciatura del Tar dopo i ricorsi presentati dai familiari dei disabili. Resta poi da abolire il superticket”.

FONTE: Il Fatto Quotidiano
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15 aprile, 2015

Alzheimer: da studi sull'arginasi una nuova speranza per i pazienti

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Nell'Alzheimer, alcune cellule del sistema immunitario cerebrale iniziano a produrre grandi quantità di un enzima che degrada l'arginina, un amminoacido importante per il corretto funzionamento dei neuroni. Bloccando l'attività di questo enzima è possibile rallentare, almeno nel modello animale, lo sviluppo della malattia.

Una delle concause dell'Alzheimer è lo sviluppo di cellule immunitarie anomale, che all'interno del cervello iniziano a consumare in maniera abnorme l'arginina, un amminoacido che concorre a una corretta espressione dei geni. A scoprirlo sono alcuni ricercatori della  Duke University, che in un articolo pubblicato sul “Journal of Neuroscience” hanno dimostrato che bloccando l'azione di queste cellule si rallenta, almeno nel modello animale, la progressione della malattia.

Matthew J. Kan e colleghi hanno usato un particolare ceppo di topi, chiamato CVD-AD, che sviluppa sintomi anatomici (placche amiloidi e fibrille di proteina tau) e comportamentali del tutto simili a quelli dei pazienti umani affetti da Alzheimer.

Monitorando questi topi per tutto il corso della loro vita, i ricercatori hanno constatato che un particolare tipo di cellule immunitarie che risiede stabilmente nel cervello, le cellule della microglia che esprimono il recettore CD11c, iniziava a dividersi e cambiare in corrispondenza delle fasi iniziali della malattia.

In particolare, Kan e colleghi hanno notato che queste cellule abbondavano proprio nelle aree responsabili della memoria - le più colpite dalla malattia - e che la loro presenza era correlata a un forte aumento della produzione di arginasi, un enzima che degrada l'arginina. I livelli di questo amminoacido nel tessuto cerebrale circostante finivano quindi per essere troppo bassi rispetto al fabbisogno dei neuroni.

I ricercatori hanno provato a somministrare a un gruppo di topi, prima dell'insorgenza dei sintomi della malattia, la difluorometilornitina (DFMO), un farmaco noto per la sua capacità di inibire l'attività dell'arginasi. In questi topi si sono sviluppate meno cellule CD11c, meno placche amiloidi e la memoria si è conservata meglio che nei topi non trattati.

"Tutto ciò ci suggerisce che, se si riesce a bloccare questo processo di deprivazione locale di amminoacidi, è possibile proteggere il topo dal morbo di Alzheimer", ha detto Kan. Va però sottolineato, avvertono i ricercatori, che non si può  pensare di proteggersi con una maggiore assunzione di arginina sotto forma di integratori alimentari, sia perché la quantità di amminoacido che arriva al cervello è strettamente regolata dalla barriera ematoencefalica, sia perché, a meno di non bloccare l'arginasi, esso verrebbe subito degradato.

I ricercatori hanno fatto inoltre un'altra sorprendente scoperta: nelle cellule CD11c anomale era aumentata la produzione di messaggeri chimici che inibiscono il sistema immunitario. "Non è quello che si riteneva che avvenisse nella malattia di Alzheimer", ha detto Kan. Si pensava anzi, ha continuato Kan, che venissero liberate molecole capaci di stimolare l'attività del sistema immunitario, portandolo ad aggredire anche i neuroni sani.

FONTE: Le scienze
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Dal Governo ulteriori tagli al fondo sanitario delle Regioni

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Oggi si sarebbe dovuta sancire l’intesa Stato Regioni su quanto e come tagliare i 2,352 miliardi al fondo sanitario, cui si aggiungono i 285 milioni in meno per l’edilizia sanitaria già decisi nell’intesa del 26 febbraio scorso. In tutto, quindi, 2,637 miliardi in meno per la sanità 2015. Come si sa, questo taglio nasce da una sorta di “corto circuito” tra legge di stabilità e altre norme (spending review, decreto 66/2014), Patto per la Salute e scelte politiche delle Regioni.

Come abbiamo visto la seduta è andata a vuoto, dopo la richiesta delle Regioni di nuove modifiche al testo dell’intesa. Modifiche dell’ultima ora, il cui accoglimento, ha detto la Conferenza dei Presidenti, è condizione “irrinunciabile” per la firma dell’accordo. In questa sede proviamo a ragionare su come si è arrivati a questa manovra di primavera di cui forse solo ora gli addetti ai lavori iniziano a comprenderne la portata per la sanità.

Andiamo con ordine. La legge di stabilità 2015 ha previsto un aumento del contributo a carico delle regioni per il contenimento della spesa pubblica. Sommando vecchi e nuovi oneri si arriva a 4,202 miliardi per le regioni a statuto ordinario e a 467 milioni per quelle autonome.

A queste cifre si devono poi aggiungere quelle “residue” di altre misure finanziarie precedenti che portano il totale a carico delle regioni a un totale di 5,889 miliardi per il 2015.

L’individuazione dei settori di spesa da tagliare è lasciata a un’intesa Stato Regioni (che si sarebbe dovuta sancire entro il 31 gennaio 2015) oppure, in caso di mancata intesa, è previsto che sia il Governo a intervenire direttamente “considerando anche le risorse destinate al finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale”.

Contestualmente la stessa legge di stabilità fa sue le cifre stabilite dal Patto per la Salute per il finanziamento della sanità, fissando in 112,052 miliardi la quota 2015 e in 115,444 mld quella 2016. Ribadendo anche che eventuali risparmi in sanità conseguenti del Patto debbano restare a disposizione del Ssn per fare nuovi investimenti e migliorare i servizi.

Questo il quadro. E poi cosa è successo? E’ successo che le Regioni (Veneto escluso) hanno deciso, con il parere contrario del ministro della Salute e la sostanziale indifferenza dell’Economia, di far pagare alla sanità più della metà del conto.

La decisione è stata presa con una prima intesa il 26 febbraio scorso che ha fissato i “saldi” della manovra complessiva a carico delle regioni, stabilendo appunto in 5,889 miliardi l’ammontare degli oneri a carico delle regioni quale contributo alla riduzione della spesa pubblica (calcolando in questa cifra il combinato disposto degli effetti per il 2015 della legge di stabilità 2015, del decreto legge 66/2014 e della spending review del 2012).

Per coprire questa cifra è stato stabilito:
-  di ridurre di 1,800 miliardi il Fondo per lo sviluppo e la coesione,
-  di ridurre di 2,352 miliardi il Fondo sanitario nazionale
-  di utilizzare 802,13 milioni di euro del Patto verticale incentivato
-  di ridurre di 285 milioni gli investimenti in edilizia sanitaria
-  di ridurre di 285 milioni il limite fissato dalla stabilità per l’indebitamento netto regionale
-  e infine attraverso ulteriori risorse per 364,87 milioni che le Regioni dovranno individuare in successiva intesa

Ma con l’intesa prevista per oggi e poi saltata (ma i saldi della manovra non cambiano) si doveva in particolare individuare i settori dove tagliare i 2,352 miliardi della sanità.

Tra beni e servizi e dispositivi medici risparmi per quasi 1,5 miliardi. Poi altri 195 da tagli alle prestazioni specialistiche e di riabilitazione inappropriate. Altri 10 milioni dal taglio dei ricoveri nelle cliniche con meno di 40 letti e 68 milioni in meno dalla riduzione dei "primariati" nelle strutture semplici e complesse. E infine 545 milioni per la farmaceutica tra prezzi di riferimento, scadenza brevetti e diminuzione del fondo per territoriale e ospedaliera. Queste le stime dei tecnici regionali e ministeriali per le misure previste nell’intesa.

Ma il punto che vogliamo sollevare, alla vigilia di questo “harakiri” delle regioni è un altro. Come è evidente la sanità fa la parte del leone con un totale di 2,637 miliardi, pari a quasi il 50% dell’intera manovra a carico delle regioni. Ma non ci stupisce solo questo. Quello che lascia veramente perplessi (e non stiamo facendo facile demagogia) è che nessuna delle voci di “risparmio” riguarda altri capitoli di spesa delle regioni.

Non si parla di stipendi dei consiglieri (in tutto quasi un miliardo l’anno), di consulenze esterne (in tutto 800 milioni l’anno), di trasferimenti alle varie “aziende regionalizzate, provincializzate, municipalizzate e consortili”, alle quali vanno ogni anno più di 3,2 miliardi di euro.

Nulla sulla spesa di beni e servizi non sanitari, che raggiunge la ragguardevole cifra di 6 miliardi l’anno (bilanci Regioni – Istat 2014).

In questi mesi abbiamo provato a chiedere il perché di queste scelte (o meglio “non scelte”) a diversi esponenti regionali. Ma nessuno ci ha dato una risposta esaustiva, limitandosi a ripetere come un mantra che la sanità “non poteva non essere toccata, visto che da sola copre il 70% delle spese regionali”.

A parte il fatto che tale percentuale è corretta solo se riferita alle spese correnti (scende al 53% se si considera l’insieme dei bilanci, compresa la quota per investimenti), resta il fatto che un segnale di volontà politica ad incidere su altre voci di spesa, anche molto chiacchierate dopo i vari scandali che hanno coinvolto centinaia di consiglieri regionali, non c’è stato.

Se ai tagli alla sanità, sommiamo quelli al Fondo per lo sviluppo e alla coesione(che rientra tra gli interventi pubblici per "rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona", vedi art.119 della Costituzione), si evidenzia che il 75% della manovra decisa in queste settimane dalle Regioni, si basa su queste due voci. Ambedue capitoli di spesa regionale “tutti” rivolti all’esterno per soddisfare un bisogno primario dei cittadini, qual è la salute, e risollevare le realtà più disagiate della penisola.

Di altri tagli, alla politica e ad altre spese di cui si sa sempre troppo poco, per tipologia e destinatari, nulla. E questo ci sembra una grande sconfitta, Prima di tutto per le Regioni stesse che sembrano non aver compreso che quello che ci si aspetta da loro è cha diano per primi il buon esempio.

Rinunciare alla metà dei compensi dei 1.100 consigliari regionali (che viaggiamo mediamente sui 200mila euro l’anno) avrebbe per esempio significato mettere da parte quasi 500 milioni di euro (più o meno l’intera manovra sulla farmaceutica) e rinunciare per un anno a consulenti esterni avrebbe significato risparmiare 800 milioni, magari utili per non soffocare ulteriormente gli investimenti nelle aree più disagiate del Paese. E, credetemi, se le Regioni l’avessero fatto, nessuno avrebbe gridato alla demagogia.

FONTE: Quotidiano Sanità
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