Oggi si sarebbe dovuta sancire l’intesa Stato Regioni su quanto e come tagliare i 2,352 miliardi al fondo sanitario, cui si aggiungono i 285 milioni in meno per l’edilizia sanitaria già decisi nell’intesa del 26 febbraio scorso. In tutto, quindi, 2,637 miliardi in meno per la sanità 2015. Come si sa, questo taglio nasce da una sorta di “corto circuito” tra legge di stabilità e altre norme (spending review, decreto 66/2014), Patto per la Salute e scelte politiche delle Regioni.
Come abbiamo visto la seduta è andata a vuoto, dopo la richiesta delle Regioni di nuove modifiche al testo dell’intesa. Modifiche dell’ultima ora, il cui accoglimento, ha detto la Conferenza dei Presidenti, è condizione “irrinunciabile” per la firma dell’accordo. In questa sede proviamo a ragionare su come si è arrivati a questa manovra di primavera di cui forse solo ora gli addetti ai lavori iniziano a comprenderne la portata per la sanità.
Andiamo con ordine. La legge di stabilità 2015 ha previsto un aumento del contributo a carico delle regioni per il contenimento della spesa pubblica. Sommando vecchi e nuovi oneri si arriva a 4,202 miliardi per le regioni a statuto ordinario e a 467 milioni per quelle autonome.
A queste cifre si devono poi aggiungere quelle “residue” di altre misure finanziarie precedenti che portano il totale a carico delle regioni a un totale di 5,889 miliardi per il 2015.
L’individuazione dei settori di spesa da tagliare è lasciata a un’intesa Stato Regioni (che si sarebbe dovuta sancire entro il 31 gennaio 2015) oppure, in caso di mancata intesa, è previsto che sia il Governo a intervenire direttamente “considerando anche le risorse destinate al finanziamento corrente del Servizio sanitario nazionale”.
Contestualmente la stessa legge di stabilità fa sue le cifre stabilite dal Patto per la Salute per il finanziamento della sanità, fissando in 112,052 miliardi la quota 2015 e in 115,444 mld quella 2016. Ribadendo anche che eventuali risparmi in sanità conseguenti del Patto debbano restare a disposizione del Ssn per fare nuovi investimenti e migliorare i servizi.
Questo il quadro. E poi cosa è successo? E’ successo che le Regioni (Veneto escluso) hanno deciso, con il parere contrario del ministro della Salute e la sostanziale indifferenza dell’Economia, di far pagare alla sanità più della metà del conto.
La decisione è stata presa con una prima intesa il 26 febbraio scorso che ha fissato i “saldi” della manovra complessiva a carico delle regioni, stabilendo appunto in 5,889 miliardi l’ammontare degli oneri a carico delle regioni quale contributo alla riduzione della spesa pubblica (calcolando in questa cifra il combinato disposto degli effetti per il 2015 della legge di stabilità 2015, del decreto legge 66/2014 e della spending review del 2012).
Per coprire questa cifra è stato stabilito:
- di ridurre di 1,800 miliardi il Fondo per lo sviluppo e la coesione,
- di ridurre di 2,352 miliardi il Fondo sanitario nazionale
- di utilizzare 802,13 milioni di euro del Patto verticale incentivato
- di ridurre di 285 milioni gli investimenti in edilizia sanitaria
- di ridurre di 285 milioni il limite fissato dalla stabilità per l’indebitamento netto regionale
- e infine attraverso ulteriori risorse per 364,87 milioni che le Regioni dovranno individuare in successiva intesa
Ma con l’intesa prevista per oggi e poi saltata (ma i saldi della manovra non cambiano) si doveva in particolare individuare i settori dove tagliare i 2,352 miliardi della sanità.
Tra beni e servizi e dispositivi medici risparmi per quasi 1,5 miliardi. Poi altri 195 da tagli alle prestazioni specialistiche e di riabilitazione inappropriate. Altri 10 milioni dal taglio dei ricoveri nelle cliniche con meno di 40 letti e 68 milioni in meno dalla riduzione dei "primariati" nelle strutture semplici e complesse. E infine 545 milioni per la farmaceutica tra prezzi di riferimento, scadenza brevetti e diminuzione del fondo per territoriale e ospedaliera. Queste le stime dei tecnici regionali e ministeriali per le misure previste nell’intesa.
Ma il punto che vogliamo sollevare, alla vigilia di questo “harakiri” delle regioni è un altro. Come è evidente la sanità fa la parte del leone con un totale di 2,637 miliardi, pari a quasi il 50% dell’intera manovra a carico delle regioni. Ma non ci stupisce solo questo. Quello che lascia veramente perplessi (e non stiamo facendo facile demagogia) è che nessuna delle voci di “risparmio” riguarda altri capitoli di spesa delle regioni.
Non si parla di stipendi dei consiglieri (in tutto quasi un miliardo l’anno), di consulenze esterne (in tutto 800 milioni l’anno), di trasferimenti alle varie “aziende regionalizzate, provincializzate, municipalizzate e consortili”, alle quali vanno ogni anno più di 3,2 miliardi di euro.
Nulla sulla spesa di beni e servizi non sanitari, che raggiunge la ragguardevole cifra di 6 miliardi l’anno (bilanci Regioni – Istat 2014).
In questi mesi abbiamo provato a chiedere il perché di queste scelte (o meglio “non scelte”) a diversi esponenti regionali. Ma nessuno ci ha dato una risposta esaustiva, limitandosi a ripetere come un mantra che la sanità “non poteva non essere toccata, visto che da sola copre il 70% delle spese regionali”.
A parte il fatto che tale percentuale è corretta solo se riferita alle spese correnti (scende al 53% se si considera l’insieme dei bilanci, compresa la quota per investimenti), resta il fatto che un segnale di volontà politica ad incidere su altre voci di spesa, anche molto chiacchierate dopo i vari scandali che hanno coinvolto centinaia di consiglieri regionali, non c’è stato.
Se ai tagli alla sanità, sommiamo quelli al Fondo per lo sviluppo e alla coesione(che rientra tra gli interventi pubblici per "rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona", vedi art.119 della Costituzione), si evidenzia che il 75% della manovra decisa in queste settimane dalle Regioni, si basa su queste due voci. Ambedue capitoli di spesa regionale “tutti” rivolti all’esterno per soddisfare un bisogno primario dei cittadini, qual è la salute, e risollevare le realtà più disagiate della penisola.
Di altri tagli, alla politica e ad altre spese di cui si sa sempre troppo poco, per tipologia e destinatari, nulla. E questo ci sembra una grande sconfitta, Prima di tutto per le Regioni stesse che sembrano non aver compreso che quello che ci si aspetta da loro è cha diano per primi il buon esempio.
Rinunciare alla metà dei compensi dei 1.100 consigliari regionali (che viaggiamo mediamente sui 200mila euro l’anno) avrebbe per esempio significato mettere da parte quasi 500 milioni di euro (più o meno l’intera manovra sulla farmaceutica) e rinunciare per un anno a consulenti esterni avrebbe significato risparmiare 800 milioni, magari utili per non soffocare ulteriormente gli investimenti nelle aree più disagiate del Paese. E, credetemi, se le Regioni l’avessero fatto, nessuno avrebbe gridato alla demagogia.
FONTE: Quotidiano Sanità
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