Non c'è alcuna evidenza che un ridotto flusso di sangue nelle vene del collo, o una loro ostruzione, sia uno dei meccanismi coinvolti nella sclerosi multipla. Uno studio canadese, pubblicato online su "Plos One", sembra sfatare la discussa teoria del chirurgo di Ferrara Paolo Zamboni, che ha suggerito un legame tra la malattia neurodegenerativa e la Ccsvi (insufficienza venosa cerebrospinale cronica), indicando dunque la possibile efficacia dell'applicazione di uno stent venoso per riaprire il vaso bloccato.
Lo studio, condotto da un gruppo della McMaster University, non ha rilevato evidenze di anomalie nelle vene giugulari interne, nelle vene vertebrali o nelle vene cerebrali profonde di 100 pazienti con sclerosi multipla, confrontati con 100 controlli sani. In sintesi, le conclusioni della ricerca smentiscono la possibilità che una terapia di "liberazione" (come viene chiamata la cura del prof. Zamboni) possa contrastare la sclerosi multipla. Proprio in Canada le teorie del chirurgo italiano alimentarono forti pressioni che, nel 2011, portarono il governo del Paese a finanziare una sperimentazione clinica sul metodo. L'anno scorso il governo ha annunciato che non si sarebbe fatto carico delle spese per il trattamento.
«Questo è il primo studio canadese a fornire evidenze contrarie al coinvolgimento della Ccsvi nella sclerosi multipla», commenta il primo autore dello studio, Ian Rodger, professore emerito di medicina alla Michael G. DeGroote School of Medicine. Tutti i partecipanti sono stati sottoposti a indagini a ultrasuoni delle vene cerebrali profonde e delle vene del collo, come pure a risonanza magnetica per immagini delle vene del collo e del cervello. Ciascun partecipante ha ricevuto entrambe le analisi nello stesso giorno. Il team di ricerca comprendeva un radiologo e due tecnici che avevano seguito un periodo di training sulla tecnica Zamboni presso il Dipartimento di chirurgia vascolare dell'università di Ferrara.
«I risultati ottenuti dai ricercatori canadesi sono esattamente agli antipodi di quello che noi abbiamo trovato, in quanto non sono stati in grado di dimostrare alcuna anomalia del flusso venoso nei pazienti con sclerosi multipla studiati sia con l'ecocolordoppler che con la venografia con catetere». È la risposta inviata da Paolo Zamboni e da Mirko Tessari, del Centro malattie Vascolari dell'Università di Ferrara, alla rivista Plos One. «Per quanto riguarda la metodologia Ecd - spiegano -, siamo rimasti molto sorpresi che gli autori non siano riusciti ad utilizzare la metodologia aggiornata di recente raccomandata da un consenso internazionale». Secondo i due scienziati, il modello Ecd in M-mode «è indispensabile per individuare gli ostacoli endoluminali e le valvole mobili e fisse, che rappresentano la maggioranza delle anomalie venose della Ccsvi». Infine, sottolineano, «siamo stati sorpresi dal focus delle indagini nella regione superiore e mediana del collo, dove non sono mai state rilevate in condizione di Ccsvi differenze significative nel portata del flusso giugulare. Al contrario numerosi report hanno misurato significative limitazioni della portata del flusso giugulare e stenosi extraluminali nella parte inferiore del collo, dove i ricercatori non hanno effettuato alcuna valutazione».
Dà ragione a Zamboni uno studio italiano pubblicato in questi giorni sul Journal of Vascular Surgery. Secondo Tommaso Lupattelli (Unità vascolare ed endovascolare, Istituto clinico cardiologico di Roma) e colleghi, autori del lavoro condotto su circa 1.200 pazienti con sclerosi ritenuti positivi alla Ccsvi, «il trattamento endovascolare per la Ccsvi sembra fattibile e sicuro». Tutti i pazienti - spiegano gli autori - erano stati precedentemente trovati positivi all'ecocolordoppler per almeno due criteri di Zamboni per la Ccsvi, e avevano una diagnosi di sclerosi multipla confermata dal neurologo. Sono state considerati per il trattamento solo i casi di sclerosi sintomatici. Procedure primarie (prima angioplastica per la Ccsvi) e secondarie (re-intervento dopo recidiva di malattia venosa) sono state effettuate rispettivamente nell'86,5% e nel 13,5% dei pazienti. Il successo della procedura e le complicazioni sono stati registrati entro 30 giorni dall'intervento.
FONTE: ADNKronos e Corriere Salute
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