Meglio un somaro in cattedra o un somaro a spasso? Messa così la risposta è ovvia: non c’è un solo genitore disposto ad affidare il figlio a un insegnante scadente. Non uno. Ma sono così tanti i dubbi e le contestazioni sul concorsone per assumere 63.712 docenti dalle materne alle superiori che c’è da chiedersi: qual è il confine esatto tra la «somarite» di una classe docente demotivata e una selezione che qua e là pare essere stata studiata apposta per bocciare? Certo è che il setaccio sta dando esiti agghiaccianti: un posto su tre resterà vuoto: i candidati non sono all’altezza. Bocciati. Il quadro, apocalittico, emerge dall’ultima ricerca di Tuttoscuola, che da mesi al concorsone fa giustamente le pulci: sulla scelta delle commissioni, sulle paghe da fame ai commissari (50 cent per ogni prova scritta), sui quesiti prescelti (Ernesto Galli della Loggia ha scritto che quelli di storia appaiono «più che un esame un tentativo di decimazione») fino all’abisso che separa il Nord dove sono i posti vuoti e il Sud da dove tanti «prof» spinti a trasferirsi urlano alla «deportazione»...
Dice dunque il monitoraggio che gli «scritti» (conclusi il 28 aprile) fino ad oggi esaminati in quasi tre mesi dalle 825 commissioni e 202 sottocommissioni sono circa la metà del totale dunque, a causa delle regole che prevedono venti giorni di stacco tra scritti e orali, «solo il 62% o poco più dei vari concorsi banditi riuscirà a concludere le procedure concorsuali in tempo utile». Cioè per il via all’anno scolastico. Un ritardo enorme. Risultato: anche quest’anno non tutte le cattedre saranno occupate da chi le ha vinte (mancanza di vincitori) ma una grossa quota finirà agli iscritti alle graduatorie ad esaurimento (dove queste ci sono ancora) o ai soliti supplenti annuali. Magari bocciati al concorsone.
Il panorama comunque, a metà percorso, è chiaro. Tra i 71.448 candidati già esaminati agli «scritti» di 510 «procedure», solo 32.036 sono stati ammessi agli orali. Il 55,2%, infatti, non è stato ritenuto all’altezza. Più bocciati al Nord, meno al Sud, spiega la tabella che pubblichiamo. Ma è difficile trarne motivo di polemica su severità e lassismo: la regione più selettiva è la Lombardia, quella meno il Friuli-Venezia Giulia. Allora? Il nodo è questo: se andrà così anche nelle graduatorie in arrivo fuori tempo massimo (315 per un totale di 93.083 candidati, in larghissima parte per l’infanzia e la primaria) è probabile un buco di circa 23 mila posti vacanti. Uno su tre. Troppo selettive le prove o troppo impreparati i concorrenti? Le due cose insieme, probabilmente. Emerge, racconta la rivista di Giovanni Vinciguerra, «una scarsa capacità di comunicazione scritta, in termini di pertinenza, chiarezza e sequenza logica e una carenza nell’elaborare un testo in modo organico e compiuto. Si ricava anche un campionario di risposte incomplete, errori e veri e propri strafalcioni, che sorprendono in maniera più acuta per il tipo di concorso in questione, ovvero una selezione tra chi si candida a insegnare alle nuove generazioni».
Onestamente: c’è qualche mamma che, per solidarietà verso chi soffre il dramma della disoccupazione, affiderebbe suo figlio a un docente di italiano che scrive «cmq» invece di comunque, «X» invece che «per» o «ke» invece di «che»? Ha studiato Dante e Petrarca o il manuale «Abbreviazioni per sms»? E chi accetterebbe un’insegnante che anziché svolgere il tema prescritto si rivolge ai commissari e chiede l’assunzione definendosi «una madre di famiglia con tre figli» alla ricerca del «posto fisso»? Massima comprensione, sia chiaro. Ma quella aspirante professoressa quali garanzie può dare a studenti che han diritto ad avere il meglio del meglio o almeno, scusate il bisticcio, un docente decente? Che se ne fa, un ragazzo che vuole imparare l’inglese, d’un professore che ignora cosa sia l’ormai diffusissimo «peer tutoring» (l’insegnamento della lingua attraverso il dialogo fra lo studente più forte e quello più debole) e lo confonde con il «peer touring» che non c’entra un fico secco? Per non dire degli strafalcioni ortografici, degli errori madornali perfino nei quiz a risposta chiusa (esempio: qual è la capitale della Svezia? -Parigi -Stoccolma -Bogotà -Madrid) o delle risposte surreali. «Cos’è un compito autentico?», veniva chiesto a chi aspira a lavorare nella scuola primaria. Per dirla facile facile: è un compito «vicino al mondo concreto» noto al bambino. Che non parli di cose astratte ma quotidiane e reali. L’Abc, per un maestro elementare. Risposta di un concorrente: «Un compito autentico è un compito fatto dall’alunno e non dal professore». Un capolavoro.
Erano 175.245 i candidati del concorsone. E tutti, sottolinea Tuttoscuola, avevano già «l’abilitazione all’insegnamento» presa magari «attraverso i percorsi abilitanti post lauream Tfa, Siss e Pas», a questo punto da rovesciare come calzini. Bene: «In alcuni compiti è emersa anche una scarsissima conoscenza dell’italiano, tanto da indurre alcuni commissari a chiedersi se si trattasse di candidati stranieri che non padroneggiavano bene la nostra lingua, salvo poi verificare che erano italianissimi». Per carità, era successo anni fa anche a un concorso per magistrati. Dove uno dei commissari, seccato per i piagnistei sulle bocciature, si era deciso a rivelare alcuni strafalcioni: da «qual’è» con l’apostrofo a «Corte dell’Ajax», dall’«a detto» senza l’acca a «risquotere». Con la «q».
Ma qui, spiega Tuttoscuola, è peggio: «La letteratura internazionale in materia di valutazione di sistema considera la qualità professionale degli insegnanti come la variabile più influente sui risultati degli studenti». Eppure da noi «in cima alle preoccupazioni dei decisori politici e sindacali non c’è stata la qualità degli insegnanti, ma il loro consenso politico, guadagnato (...) attraverso la sostanziale conservazione dello status quo dal punto di vista giuridico ed economico: carriera solo per anzianità e uguale per tutti gli insegnanti...». Accusa sacrosanta. E l’ecatombe di candidati alle scuole d’infanzia e alle primarie negli scritti esaminati finora (22,4% di ammessi agli orali: quattro su cinque no) pare l’indizio che la professione di insegnante basata sul vecchio patto non scritto «ti pago poco ma ti chiedo un po’ meno» ha finito per essere «inevitabilmente considerata non una prima scelta da parte dei migliori studenti universitari (fatte salve le eccezioni, che per fortuna non mancano), e anzi da molti una seconda o terza scelta». Ma possiamo, oggi, sopravvivere al degrado d’una scuola sempre più «stipendificio» e sempre meno concentrata sulla crescita degli studenti? «Inutile nascondersi dietro un dito», accusa la rivista: «Finché l’insegnamento non tornerà ad essere una prima scelta mancherà il presupposto principale per tenere alto il livello qualitativo della scuola italiana». Anche al di là delle eventuali magagne nelle selezioni.
Autore: Gian Antonio Stella
FONTE: Corriere.it (servizio in abbonamento)
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